Zwischenzug: riflessioni diversamente corrette

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners
Prima riflessione. Negli scacchi lo Zwischenzug è una mossa imprevista in cui il giocatore all’attacco, pur potendo concludere con successo la cattura di un pezzo dell’avversario (ormai rassegnato a perderlo), rinvia la cattura e apre invece un nuovo fronte offensivo che spiazza l’avversario e lo mette in affanno.
Siete contenti della piega positiva che stanno prendendo i negoziati tra Stati Uniti e Cina? Trump lo è, perché oltre a qualche regalo con cui la Cina sperava di chiudere la questione (acquisti massicci di soia e di petrolio americani), ci sarà anche, a quello che è dato di sapere, qualche apertura seria sui servizi finanziari e sul tema strategico della tecnologia. La Cina si impegnerà a non chiedere trasferimenti obbligatori di know-how alle imprese straniere e a dare meno sostegno pubblico alle imprese del settore, in particolare nell’aerospaziale.
Tutti ora ci aspettiamo che l’accordo arrivi in tempi brevi, ma sappiamo anche che la vera sfida non è ora, in fase di trattativa, ma sarà più avanti, in fase di applicazione. La Cina ha una lunga tradizione di accordi commerciali formali o informali non rispettati ed è legittimo dubitare che l’accordo di massima che si appresta a raggiungere con l’America verrà davvero applicato.
È possibile quindi che Trump vinca la tentazione di portare a casa il trofeo dell’accordo, dichiarando chiuso il conflitto, per mantenere forme concrete di pressione sulla Cina e spingerla ad applicare quanto pattuito. È possibile insomma che Trump faccia uno Zwischenzug, mantenendo la Cina sotto pressione e aprendo intanto un altro fronte, questa volta con l’Europa.
L’attacco all’Europa può naturalmente avvenire anche in sequenza lineare, dopo avere cioè chiuso il capitolo cinese, che dopo quello del Nafta è la seconda parte della trilogia trumpiana sul commercio. L’Europa insomma arriverà comunque, è solo questione di qualche settimana.
Rallegrarsi per l’accordo con la Cina, da parte dei mercati, ha perfettamente senso, così come pensiamo abbia senso comprare oggi azioni e valute della Cina e dell’Asia in generale. Bisogna però essere consapevoli del fatto che per un conflitto che si chiude un altro se ne apre. Ci si era illusi, in Europa, che la tregua raggiunta in agosto tra Trump e Juncker fosse definitiva e che le elezioni di mid term avrebbero ridotto Trump a più miti consigli. Non si era tenuto nel debito conto il fatto che Trump è molto meticoloso nella realizzazione punto per punto del suo programma elettorale e che questo programma includeva e include l’Europa. Avere perso un ramo del Congresso non fermerà Trump, che concentrerà anzi le sue notevoli energie sulle aree di competenza presidenziale, tra cui spiccano proprio i dazi.
Fortunatamente l’industria dell’auto tedesca ha capito bene, fin da subito, da che parte soffia il vento in America e ha già fatto ampi progressi nel divenire rapidamente una e trina e nell’organizzare filiere produttive parallele in Europa, Asia e America. E d’altra parte le quotazioni di borsa dei ciclici tedeschi (ed europei in generale) riflettono già una buona misura dei danni che la guerra commerciale produrrà e rimbalzeranno quando il conflitto (che sarà breve) si concluderà. Se le grandi case tedesche se la caveranno, resterà comunque un danno per la piattaforma industriale e per l’occupazione europea, e quindi per le possibilità di rialzo dell’euro. Se poi l’euro salirà per venire incontro a Trump, il danno sarà ancora maggiore.
Seconda riflessione. I mercati sono arrivati alla conclusione che Powell o è un incapace o ha serissimi problemi di comunicazione o è ossessionato dalla curva di Phillips e da un indicatore ritardato come l’occupazione e per avere un decimale in meno d’inflazione è pronto a precipitare il mondo nella recessione.
E se Powell, come nota Kevin Muir, avesse invece in mente qualcos’altro? Nei lunghi mesi in cui la Casa Bianca studiò i profili dei possibili successori della Yellen, il punto su cui si incagliò più volte la candidatura di Powell fu la sua freddezza, nel corso degli anni, verso il Qe e verso la politica di tassi troppo bassi. Attenzione, non una freddezza motivata dai rischi di inflazione ma da quelli di bolla finanziaria.
Non sappiamo come la questione, molto delicata per un’amministrazione che punta molto sulla crescita e sulla borsa, fu superata e come alla fine Powell riuscì a convincere Trump. Il fatto è che Powell, in cuor suo, non ha mai smesso di vedere le crisi del 2001-2003 e del 2008-2009 non come generate da fattori economici bensì effetto di crash finanziari. Quando all’inizio di ottobre la borsa ha toccato nuovi massimi e quando tutti stavano iniziando a rivedere al rialzo gli obiettivi, Powell ha quindi detto con il massimo di ruvidità (e passando come un carro armato sopra le quantificazioni del tasso neutrale fatte con il bilancino dal Fomc) che i tassi avevano ancora ampi spazi di aumento.
La borsa, come sappiamo, ha preso malissimo questa considerazione, ha continuato a scendere e, strada facendo, si è convinta che la Fed stava commettendo uno dei più grandi errori di policy degli ultimi decenni proprio nel momento in cui l’economia stava rallentando in tutto il mondo. Una volta sceso il mercato, tuttavia, Powell ha cambiato linguaggio, ha di fatto cancellato il già pericolante rialzo dei tassi di marzo e ha concesso che il Quantitative tightening potrà essere sospeso in caso di bisogno, senza peraltro interromperlo.
In realtà la call di Powell, ovvero il tetto sopra il mercato, è tanto forte quanto la sua put, ovvero la rete di protezione sotto il mercato. E se la borsa riprenderà un giorno a ricamare su un ritorno ai massimi, pur in presenza di margini sotto pressione, si ritroverà di nuovo di fronte i carri armati della Fed pronti a sparare rialzi dei tassi (se l’economia sarà in grado di sopportarli) o minacce anche più severe (ed efficaci) di quelle del 3 ottobre scorso.
Terza riflessione. Molti, l’anno scorso, hanno spiegato il rialzo dei tassi americani con, tra l’altro, l’aumento del deficit pubblico, che veleggia verso il 5 per cento. In realtà il Treasury decennale ha chiuso il 2018 allo stesso livello su cui l’aveva iniziato. Resta comunque in molti l’idea che l’anomalia di disavanzi così ampi prima o poi verrà corretta, più con un aumento delle tasse che con un taglio di pensioni e sanità.
L’anomalia americana è particolarmente avvertita in Europa, dove la Germania cerca di fare passare il concetto che il bilancio pubblico è come quello di una famiglia e che la stato può spendere solo quello che raccoglie con le tasse, pena la trasmissione a figli e nipoti di un debito insostenibile.
Bene, che cosa accadrà al deficit pubblico americano dopo le presidenziali dell’anno prossimo? Non lo sappiamo con certezza, ovviamente, ma possiamo fare delle ipotesi. Se vincerà di nuovo Trump il disavanzo rimarrà sugli alti livelli attuali e farà quindi salire velocemente lo stock di debito. Nessuno infatti vorrà tagliare il welfare, mentre i repubblicani e Trump continueranno a opporsi a tagli alla difesa e ad aumenti delle tasse.
In caso di Casa Bianca democratica aumenteranno certamente le tasse, anche di molto, ma le spese aumenteranno ancora di più. Nel caso prevalga un candidato socialista (al momento ce ne sono già quattro, Sanders, O’Rourke, Warren e Ocasio-Cortez) le spese potrebbero addirittura esplodere. Adorata da giornali e televisioni, la giovane e simpatica Alexandria Ocasio-Cortez vuole la sanità universale (che vogliono anche gli altri) e un incredibilmente costoso Green New Deal che liberi l’America dai fossili entro il 2030.
Per finanziare il tutto la Ocasio propone tasse sopra il 70 per cento sopra i dieci milioni di reddito ma sa benissimo che in questo modo si raccoglierebbe solo una goccia del mare di soldi necessari. Il resto? In deficit.
La Ocasio si dichiara affascinata dalla Modern Monetary Theory che è, per dirla in breve, quanto di più lontano nell’universo si possa immaginare rispetto all’Ordoliberalismus tedesco. La MMT, evoluzione del chartalismo, tanto moderna non è, ma per decenni è rimasta patrimonio di una piccola setta ereticale marginale. Dopo il 2008 e la conseguente domanda di reflazione non soddisfatta dal mainstream, la MMT è esplosa come moda culturale nella sinistra liberal e progressive (e anche in ambienti libertari) e oggi anche un mostro sacro come Krugman, appassionato sostenitore della Ocasio, la rispetta.
La MMT dice che il disavanzo pubblico è una scrittura contabile e che lo stato potrebbe anche non raccogliere tasse se non fosse che le tasse, da pagare in denaro emesso dal sovrano, rendono necessario procurarsi questo denaro, rendendolo a questo punto universalmente accettato (chi lavorerebbe, altrimenti, per ricevere a fine mese qualche pezzo di carta stropicciato?). La MMT ammette il vincolo dell’inflazione, ma mette tritolo sotto al tabù non solo del deficit, ma anche a quello del debito.
In pratica, per il 2019 possiamo ancora vivere anche abbastanza confortevolmente in un mondo che riusciamo faticosamente a capire, quello compreso tra la put e la call di Powell. Le oscillazioni che vedremo quest’anno ci sembreranno ampie e lo saranno, ma non saranno niente rispetto a quello che si staglia sull’orizzonte per il prossimo decennio.

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!