Il costo dell’illiquidità: una possibile conseguenza dell’avversione alla volatilità

A cura di Alex Houlding, M&G Investments

La liquidità di un asset dipende dalla facilità con cui lo si può acquistare o vendere senza che il prezzo ne risenta. Soprattutto in condizioni di mercato estreme, gli investitori che cercano di vendere asset illiquidi possono trovarsi costretti ad accettare prezzi drasticamente ridotti per trovare un compratore, tanto più se vuole vendere in tempi rapidi, una lezione che hanno imparato in molti nel periodo 2008-2009.
La saggezza finanziaria (ma anche il buon senso) suggerisce quindi che la liquidità è una caratteristica desiderabile e che dovremmo esigere una remunerazione maggiore per detenere asset meno liquidi, ma la forte avversione alla volatilità attualmente presente nel settore potrebbe spingere gli investitori a perdere di vista questo principio.
Eric si è occupato l’anno scorso dell’ossessione per la volatilità e di altri temi collegati. L’estrema attenzione riservata a parametri come la volatilità e il valore a rischio (VAR), nessuno dei quali misura realmente il rischio effettivo, è fuorviante e può costare molto caro.
Se guardiamo il rischio in un’ottica così limitata, gli attivi meno liquidi appaiono all’improvviso più attraenti: di fatto gli investitori osservano un prezzo livellato per asset che sono rivalutati solo periodicamente e/o con una certa discrezionalità, il che abbassa la volatilità misurata e la correlazione con altri attivi e, di conseguenza, riduce il rischio misurato e rende più accettabili i profili di rendimento misurati. In questo modo l’illiquidità può sembrare qualcosa di desiderabile.
Se gestire (leggi: evitare) la volatilità è la preoccupazione principale, l’illiquidità in effetti diventa una caratteristica apprezzabile, pertanto si può essere tentati di inserire asset illiquidi in portafoglio, ed è esattamente quello che stanno facendo gli investitori. Il sondaggio di BlackRock 2019 Global Institutional Rebalancing mostra un chiaro spostamento verso l’illiquidità: le asset class su cui i fondi sembrano più propensi a puntare nel 2019 sono beni fisici, private equity e immobili, mentre la riduzione più attesa riguarda l’esposizione alle azioni quotate (il tutto per il secondo anno consecutivo).
Il ruolo degli asset illiquidi
Credo fermamente che questi investimenti possano avere un ruolo in un portafoglio multi-asset: se sono influenzati da fattori fondamentali diversi o risultano ampiamente sottoquotati, possono costituire una fonte di rischio e rendimento utile ai fini della diversificazione.
Tuttavia, si può cadere facilmente nell’errore di sovrastimare benefici per certi aspetti illusori. I prezzi dichiarati non rifletteranno fedelmente il valore di mercato degli asset e le proprietà di rischio del portafoglio potrebbero non variare in misura significativa, in senso economico. Inoltre, l’illiquidità tende a non essere un problema fino al momento in cui gli investitori tentano di vendere le posizioni, scoprendo (soprattutto se sono in molti a muoversi contemporaneamente) che gli asset decorrelati/a bassa volatilità possono rivelasi esattamente l’opposto. Per questo spesso gli investitori non si rendono conto dei veri rischi assunti.
L’aumento della popolarità delle strategie illiquide e dei capitali che vi confluiscono comporta il pericolo di un aumento dei prezzi tale da rendere le remunerazioni attese inadeguate a compensare i rischi di illiquidità associati a tali investimenti. Nel corso dell’ultimo anno, sono state segnalate valutazioni eccessive in aree come il private equity, il segmento degli immobili commerciali negli Stati Uniti e anche i mercati private più in generale. Il crescente desiderio di evitare la volatilità può indurre le persone a pagare di più per detenere asset illiquidi, azzerando così il premio di illiquidità che è un elemento importante della remunerazione ottenibile.
Lo sconto di liquidità
La nostra tesi è che il desiderio di evitare la volatilità abbia inciso anche sugli asset liquidi. L’anomalia valutativa principale osservabile oggi è l’attrattiva delle azioni globali (quotate) rispetto agli asset percepiti come rifugio, tipo le obbligazioni e la liquidità (principalmente al di fuori degli USA). Il premio al rischio azionario (ERP) misura la remunerazione aggiuntiva che gli investitori esigono per detenere azioni anziché titoli di Stato, che in genere sono meno volatili (e meno esposti alla crescita). Nel clima di avversione alla volatilità creato dalla crisi finanziaria, gli investitori hanno chiesto un ERP maggiore per tollerare questo rischio.

Dal punto di vista emotivo, osservare le oscillazioni dei prezzi ogni ora, ogni giorno e ogni settimana può trasformare la detenzione di azioni in un’esperienza molto pesante e contribuire alla spinta verso i titoli illiquidi.
Esiste anche un desiderio innato di guardare indietro e desiderare di aver acquistato una quantità maggiore di quegli asset che sono andati così bene, e costruirsi una motivazione logica per tenerli in portafoglio anche se le valutazioni si deteriorano. Diversi studi hanno suggerito che la tendenza al comportamento pro-ciclico di rincorsa dei rendimenti è un vizio comune agli investitori istituzionali e privati (si vedano ad esempio le conclusioni qui o quelle dell’FMI qui). I vantaggi apparenti degli asset illiquidi esercitano particolare richiamo dopo una fase volatile come quella che abbiamo appena attraversato.
Quando l’umore è negativo, si cade facilmente nella tentazione di pensare che gli asset illiquidi possano offrire protezione contro le tendenze di mercato più generali. Tuttavia, come ha spiegato Tony in passato, tutti gli asset hanno una qualche esposizione alla crescita e ai tassi d’interesse; se la paura più grande oggi è che questi fattori siano venti contrari per molti asset, non è detto che puntando sull’illiquidità fine a sé stessa si ottenga qualcosa che non sia solo rinviare le perdite o ridurre la propria capacità di reagire a un contesto in evoluzione.

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