Il populismo è un costo

A cura di Bert Flossbach, co-fondatore e responsabile investimenti di Flossbach von Storch

Negli ultimi 30 anni, la globalizzazione ha permesso a oltre un miliardo di persone di uscire da una condizione di estrema povertà, garantendo loro un modesto livello di prosperità. La Cina è il vincitore indiscusso della globalizzazione, con il suo prodotto interno lordo aumentato di 11 volte rispetto al 2000, passando da 1.215 miliardi di dollari a circa 13.500 miliardi di dollari. Di questo, hanno beneficiato anche molte imprese nei paesi industrializzati e i loro dipendenti.

Ma non ci sono solo vincitori, come dimostrano le aree deindustrializzate e spopolate negli Stati Uniti e in Europa. Malgrado una complessiva riduzione della disoccupazione, i membri della tradizionale classe media lottano contro la perdita di posti di lavoro ben retribuiti e del loro status sociale. Senza contare che il fenomeno dell’immigrazione li fa sentire ancora di più i perdenti della globalizzazione.

La Brexit, la vittoria di Donald Trump, il governo italiano di coalizione tra il populista M5S e il partito di destra della Lega, o il movimento di protesta dei gilet gialli in Francia, devono essere visti come i risultati di questa tendenza. La sensazione di non essere più presi sul serio dai politici ha offuscato la tradizionale linea di demarcazione tra sinistra e destra. Entrambe le parti sono accomunate dallo scetticismo nei confronti della globalizzazione e dell’immigrazione, da una scarsa considerazione dell’establishment e dalla convinzione che uno Stato forte possa proteggere i propri cittadini dagli intrusi e dai rischi sociali.

Le promesse elettorali del governo Italiano, le concessioni del presidente francese Emmanuel Macron ai gilet gialli e le politiche di Donald Trump (la riforma fiscale, il muro al confine tra Stati Uniti e Messico) dimostrano che il populismo è un costo. Porta a un aumento del deficit e del debito pubblico. Un fattore particolarmente problematico nell’Eurozona, poiché non rispettare a lungo i criteri di stabilità di Maastricht metterebbe a rischio la moneta unica. La Francia, ad esempio, nel 2019 potrebbe arrivare ad avere un deficit di oltre il 3% a causa delle misure attuate a seguito delle proteste dei gilet gialli, poiché i tagli in altri settori (es. all’apparato statale, sovradimensionato) sarebbero quasi impossibili da realizzare politicamente.

Questo, comprensibilmente, suscita l’invidia. Perché gli italiani dovrebbero rispettare degli obiettivi di deficit che i francesi possono superare senza incorrere in sanzioni? Soprattutto dal momento che l’Italia ha avuto per anni un deficit inferiore a quello Francese. Il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker risponderebbe “perché è la Francia”. Ma questo probabilmente non soddisferebbe a lungo l’Italia.

La disciplina di bilancio nell’Unione Europea sta venendo meno. I risparmi derivanti dalla riduzione dei tassi di interesse non sono utilizzati per il consolidamento del bilancio, ma per finanziare costose promesse elettorali o per difendere il proprio potere. Poiché i benefici promessi sono di natura permanente, annullarli è quasi impossibile.

Il populismo conduce all’attuazione di una politica fiscale più costosa che può generare stimoli economici a breve termine – purché non paralizzi l’economia, come in Francia. A lungo termine, tuttavia, il populismo fa innalzare il debito pubblico, sia a causa di costosi programmi di governo sia che si debbano attuare misure ad hoc per calmare le proteste. Questo non vale solo per l’Eurozona, ma anche per gli Stati Uniti, che vedranno aumentare il proprio deficit fino a quasi il 5% in quest’anno fiscale.

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