Banche Centrali al punto di svolta

A cura di Philipp Vorndran, capital markets strategist, Flossbach von Storch AG

Chi prenderà il posto del presidente della BCE Mario Draghi in ottobre porterà un pesante fardello. Dopo un lungo periodo di espansione, la ripresa economica minaccia di rallentare. Poiché i tassi d’interesse sono al minimo assoluto, la BCE avrebbe poco spazio di manovra in caso di flessione dell’economia.

La BCE potrebbe provare a concedere alle banche delle indennità per esentare dai tassi negativi parte dei loro depositi, stabilizzando in questo modo il sistema bancario. Il mantenimento del programma TLTRO a tasso zero nel lungo termine agevolerebbe il rifinanziamento delle banche e la loro capacità di concedere prestiti. Se la crisi del debito della zona euro dovesse aggravarsi, infine, la BCE potrebbe riavviare il programma di acquisto di obbligazioni per sostenere i paesi della zona euro in difficoltà. In questo modo il pilota resterebbe in volo un po’ più a lungo e darebbe al personale di terra il tempo sufficiente per preparare un atterraggio relativamente morbido.

 

Possibile un soft landing

Riteniamo altamente discutibile, tuttavia, che un atterraggio indolore sia ancora possibile. I paesi della zona euro, fortemente indebitati, non hanno sfruttato il tempo concesso dalla BCE con la sua politica dei tassi bassi e, visti gli sviluppi politici in molti paesi, la situazione non cambierà affatto in futuro. L’auspicata inversione dei tassi d’interesse non si verificherà, perché non si può permettere che questo accada. Anche dopo sei anni di ripresa economica questa rimane una mera illusione.

A differenza della zona euro e del Giappone, gli Stati Uniti hanno iniziato già da diversi anni il cammino verso una politica monetaria più sostenibile. La Fed ha alzato per la prima volta i tassi alla fine del 2015 e da allora ha effettuato altri otto aumenti dei tassi di interesse. Nel 2014 ha concluso il “quantitative easing” e nel 2017 ha ricominciato a ridurre il suo bilancio gonfiato, riducendo il suo portafoglio titoli.

Il rendimento del Tesoro statunitense a 10 anni è salito inizialmente a oltre il 3%. Alla luce del boom economico alcuni, come il capo della più grande banca statunitense JP Morgan, hanno addirittura dichiarato lo scorso autunno che nel prossimo futuro sarà possibile ottenere un rendimento del 4-5%. Ma poi è emerso che anche la più grande potenza economica del mondo non ha modo di agire da sola in un pianeta dove i tassi di interesse e, ad eccezione della Cina, la crescita sono bassi. Il basso livello dei tassi d’interesse nel resto del mondo e i primi segnali di rallentamento dell’economia americana hanno fatto scendere significativamente i rendimenti del Tesoro americano.

 

Fed pronta a invertire la politica monetaria

A causa dei crescenti segnali di indebolimento, o addirittura della fine della ripresa economica, la Fed ha segnalato una possibile inversione di tendenza nella sua politica monetaria. A marzo, il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha poi dichiarato di voler sospendere, almeno temporaneamente, gli aumenti dei tassi e di voler porre fine alla riduzione del bilancio già in settembre. Il rendimento dei Treasury USA a 10 anni è di nuovo sceso a circa 2,4%, dato che li colloca – per la prima volta dal 2007 – al di sotto del rendimento Treasury a tre mesi.

Quando i rendimenti dei titoli a lunga scadenza sono inferiori a quelli dei titoli a breve termine, la curva dei rendimenti risulta invertita, riflettendo le aspettative relativamente pessimistiche sulla futura crescita economica. Una curva dei rendimenti invertita è stata spesso il precursore di una recessione in passato.

I prossimi 12 mesi saranno utili per capire se anche l’attuale inversione minima della curva dei rendimenti indichi davvero una recessione. Gli economisti definiscono una recessione come almeno due trimestri consecutivi con tassi di crescita negativi. Anche una minuscola diminuzione della produzione economica reale dello 0,1% è quindi sufficiente da un punto di vista puramente tecnico. Si tratta di un tipo di recessione di cui non ci si accorge, la si legge sui giornali solo dopo che è già finita.

 

Recessione?

Le vere recessioni sono su una scala completamente diversa. Esse portano a un aumento della disoccupazione, a un calo degli utili aziendali, a un numero crescente di insolvenze, a una minore disponibilità a investire e a una diminuzione della spesa dei consumatori. Le ultime due recessioni del 2008 e del 2001 soddisfano questi criteri. Entrambi i casi hanno portato anche a un forte calo dei prezzi delle azioni e, nel 2008, a una vera e propria crisi finanziaria.

Nessuna di queste due situazioni è attualmente prevedibile e, nonostante una politica monetaria espansiva e una riforma fiscale espansiva negli Stati Uniti, non vi è alcun segno di un aumento dell’inflazione che potrebbe indurre i banchieri centrali a tirare il freno. Il basso tasso d’inflazione nei paesi industrializzati occidentali, che non mostrano ancora segni di surriscaldamento economico, si oppone al tipico ciclo boom-bust.

I bassi tassi d’interesse hanno fatto salire i prezzi dei beni, ma non hanno causato aumenti significativi dei prezzi nell’economia reale, a eccezione dell’industria delle costruzioni, che ha beneficiato direttamente del boom immobiliare nelle aree metropolitane.

Non siamo soliti fare previsioni economiche, ma a causa della mancanza di informazioni contrarie, stiamo mantenendo la nostra precedente visione del mondo basata su una moderata crescita economica globale e bassi tassi di interesse per il prossimo futuro.

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