Pistole sul tavolo: la nuova diplomazia muscolare

A cura di Alessandro Fugnoli, Kairos Partners

Su tutti i fronti lo scontro si inasprisce. Se non è ancora guerra aperta è scavo di trincee e riarmo. Si continua a trattare, e non è poco, ma non più attraverso i grandi mandarini della diplomazia, antropologicamente simili tra loro e dotati di solidarietà di casta anche quando siedono su fronti avversari. No, adesso la trattativa viene avocata a sé dai livelli massimi del potere e si svolge con la pistola sul tavolo.

Il conflitto più antico tra quelli in corso è quello tra Regno Unito ed Europa, che ha come sottoprodotto un conflitto civile nel Regno Unito. Dal referendum del 2016 a pochi giorni fa è stato gestito dai grandi mandarini di Whitehall e della Commissione europea con l’intenzione di svuotare gradualmente Brexit per poi, alla fine, renderla totalmente inoffensiva. Oggi, con Boris Johnson all’orizzonte, la trattativa resta possibile, ma con la pistola di un’uscita senza accordo in ottobre in bella evidenza sul tavolo delle trattative. E con Johnson umorale e imprevedibile come Trump, la pistola fa ancora più effetto.

Quanto a Trump, di pistole ce ne sono ormai su tutti i tavoli di trattativa. La Russia è costantemente minacciata di ulteriori sanzioni. L’Iran, oltre alle sanzioni sempre più pesanti, è posto di fronte a per ora velate minacce di intervento militare. L’Europa è stata graziata fino all’autunno, ma pendono ancora sulla sua testa le spade di Damocle dei dazi sulle auto pensati per la Germania e di quelli sui prodotti agricoli pensati per la Francia.

Si credeva che Canada e Messico, dopo la firma del Nafta 2, fossero ormai fuori pericolo, ma la decisione di punire il Messico con dazi crescenti se non fermerà il flusso migratorio verso gli Stati Uniti mostra che Trump, sui temi che gli stanno cari, non ha problemi ad alzare continuamente la posta. Non che non abbia le sue ragioni (il Messico ha mostrato in più momenti di potere arginare perfettamente, quando vuole, il flusso di migranti proveniente dall’America centrale) ma è comunque sorprendente che Trump sfidi i democratici con una linea dura sull’immigrazione quando il Nafta 2 è ancora da ratificare in Congresso e la ratifica dipende dai voti democratici.

Con la Cina, di pistole sul tavolo ce n’è ormai un’intera collezione. Si è partiti dai dazi già in vigore dall’anno scorso, di recente alzati, e ci si prepara a estenderli su tutte le importazioni dalla Cina a dosi, probabilmente del 5 per cento alla volta. Sono dosi piccole ma, come ama ripetere Trump a ogni occasione, il loro limite è il cielo. E alle pistole si sono aggiunti pezzi di ar t igl ier ia pesante come i l boicottaggio globale di Huawei, gioiello del 5G e punta di lancia dell’industria militare cinese.

La novità degli ultimi giorni è che anche la Cina sta disponendo sul tavolo un campionario delle sue armi. Si è molto parlato delle terre rare, su cui la Cina si è costruita con tenacia un semimonopolio globale nell’estrazione e nella trasformazione. Il ventilato divieto all’esportazione di questi minerali creerebbe nel resto del mondo serie difficoltà per molte industrie. Si tratterebbe però di difficoltà temporanee, perché le terre rare così rare non sono.

In realtà, la vera arma che la Cina sta mettendo sul tavolo è la mobilitazione ideologica interna e il ricorso a formulazioni sempre più impegnative per definire il conflitto in corso. Nella cultura politica cinese le parole hanno un peso preciso e non vengono mai usate a caso o inflazionate. Parlare di guerra di popolo (come si è cominciato a fare) per presentare il conflitto con l’America è pesantissimo, perché evoca la guerra antigiapponese e il prezzo di sangue che la Cina ha dovuto pagare per riguadagnare la sua indipendenza.

Nei giorni scorsi un’altra immagine straordinariamente potente è stata evocata, quella della Lunga Marcia. Qui entriamo in quanto è di più sacro nella storia del partito comunista cinese, l’epopea della grande ritirata strategica che per un anno, tra il 1934 e il 1935, vide i resti dell’Armata Rossa, inseguiti dalle forze regolari di Chiang Kai-shek, peregrinare nelle regioni più inospitali del paese, tra montagne innevate, deserti e paludi e arrivare finalmente nello Shaanxi, stremati e decimati. Dell’Armata Rossa dello Shaanxi, da cui sarebbe poi partita nel decennio successivo la conquista comunista della Cina, era capo militare Xi Zhongxun (1913-2002) e proprio nello Shaanxi suo figlio Xi Jinping ha voluto recarsi per lanciare con la maggiore solennità possibile il messaggio che la Cina deve prepararsi a una nuova Lunga Marcia. La Cina deve dunque essere pronta a rinunciare a parte della sua crescita e del suo raggiunto benessere per affrontare un pericolo esistenziale, sopravvivere e risorgere alla fine più forte di prima e nuova guida del mondo. Tornare indietro da questa simbologia non sarà facile. Ci saranno tregue e accordi, ci auguriamo, ma il meccanismo che si è avviato rimarrà in piedi a lungo.

Infine, pistole sul tavolo anche tra Europa e Italia. Siamo alle prime fasi della trattativa sul bilancio del 2020 e già abbiamo una Commissione che non trova di meglio che minacciare multe consistenti e un parlamento italiano che vota all’unanimità una mozione per l’introduzione dei minibot. Di per sé i minibot sono solo una forma di cartolarizzazione del debito della pubblica amministrazione, un’anticipazione di cassa che dovrebbe mettere temporaneamente soldi in circolazione e rilanciare la domanda interna. Per le discutibili regole contabili europee il debito dello stato verso i fornitori, presunto di breve, non rientra nel computo dello stock di debito, mentre i minibot vi rientrerebbero, con un effetto ottico sgradevole ma non molta sostanza. La questione di fondo dunque non è il debito, ma il retropensiero che i minibot introducano una nuova sorta di valuta e che questa nuova valuta, creata in quantità adeguate, possa un giorno diventare una protolira e poi una lira.

Visto da Marte, il conflitto tra Italia e Europa appare futile, perché potrebbe essere risolto con un minimo di buon senso. Basterebbe infatti che l’Europa facesse quello che fanno tutti e si dotasse della possibilità, in caso di pioggia torrenziale, di aprire l’ombrello, dotandosi di una politica fiscale anche solo moderatamente espansiva (a questo punto non importa se federale o delegata agli stati) quando, come ora, l’economia ristagna, l’industria dell’auto è sotto attacco da tutte le parti e i mercati di sbocco si chiudono. Da parte sua l’Italia potrebbe in cambio impegnarsi a riqualificare la spesa, deregolare e rendere più efficiente la pubblica amministrazione. Queste cose di buon senso sono però oggi difficili in un’Europa mentalmente sempre più rigida e con una Merkel in prorogatio per assenza di una successione adeguata proprio mentre l’Italia si radicalizza.

Che fare?

Abituarsi. Se il conflitto tra Cina e America coprirà tutto l’arco di questo secolo le borse non scenderanno necessariamente per cento anni. La guerra fredda è durata più di quarant’anni e ha vissuto momenti terribili come la crisi dei missili del 1963 ma i mercati hanno imparato a conviverci e alla fine sono comunque saliti.

Aspettare i soccorsi. Già il 16 giugno la Fed potrebbe annunciare la disponibilità ad abbassare i tassi.

Aspettare le tregue. Tutti i conflitti lunghi sono intervallati da fasi di tregua più o meno solide. A fine giugno, con l’incontro tra Trump e Xi, potrebbe aprirsi una fase di fragile tregua.

Sfruttare la ridondanza. La globalizzazione è efficienza, la deglobalizzazione è ridondanza. Là dove c’era un’unica filiera produttiva globale se ne devono creare due. Questo implica la duplicazione di impianti e risorse e nuovi investimenti nei settori più interessati dal conflitto.

Grandi progetti. Il progetto Manhattan, la bomba atomica, fu figlio della guerra. Il progetto Apollo, la luna, fu figlio della guerra fredda. Da questi due progetti è discesa una parte decisiva dell’innovazione di questi 75 anni. I conflitti mobilitano risorse e costringono a mettere a fuoco gli obiettivi. Le spese per la difesa, per l’alta tecnologia a sfondo militare e per la sicurezza informatica possono andare in una direzione sola.

Vietnam. Quello che sta succedendo è a somma negativa, quanto meno nella fase iniziale, ma per qualcuno è manna dal cielo. Il Vietnam ha tassi di crescita stabili simili a quelli cinesi, ha un costo del lavoro più basso di quello cinese, è in ottimi rapporti con l’America e della Cina ha da millenni solo paura. Ci sono anche altri paesi dell’Asia del sud avvantaggiati dalla fuga dalla Cina, ma il Vietnam sembra al momento quello meglio posizionato.

Oro. Pensiamo all’oro laicamente, senza ipotizzare nuove Weimar o apocalissi di qualsiasi genere. Semplicemente qualcosa che, in condizioni di tassi bassi, dovrebbe mantenere il suo valore e magari, di tanto in tanto, migliorarlo.

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