La fine della normalizzazione monetaria

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners

Nice try! Next time! Bel tentativo, nice try, è un modo di dire inglese per indicare ironicamente e sarcasticamente che qualcuno ci ha provato (con impegno e magari con una certa abilità) e che però ha fallito. Next time (andrà meglio un’altra volta) completa con altro sarcasmo il concetto.

Bel tentativo, dunque, quello di normalizzare la politica monetaria su scala globale. Presentata a Jackson Hole dalla Fed nell’agosto del 2016, discussa per mesi tra i policy maker di mezzo mondo, l’idea della fine dell’emergenza e del ritorno alla normalità fu adottata alla fine anche dal Giappone e dalla Bce, che nel giugno 2017, nel suo seminario annuale di Sintra, proclamò di essere pronta anche lei a togliere le stampelle a economie e mercati europei, dichiarandoli in questo modo guariti. Macron era appena stato eletto presidente e tutto sembrava orientato verso il meglio, una volta per tutte.

La normalizzazione è stata la versione 2.0 della exit strategy, l’idea con cui era stata accompagnata l’introduzione del Quantitative easing poco dopo la fine della Grande Recessione del 2008-2009. Vedete, era il ragionamento della versione 1.0, noi partiamo con il Qe, ma fin da subito abbiamo pronto il piano per uscirne. Non è monetizzazione del debito, non pensatelo nemmeno, è solo un’immissione temporanea di liquidità che verrà ritirata il prima possibile.

All’inizio l’exit strategy fu annunciata probabilmente in buona fede. Si pensava del resto, nei mercati e in accademia, che l’inflazione sarebbe ripartita in tempi brevi e che la deflazione sarebbe stata ben presto un ricordo. Andò diversamente. Di exit strategy si continuò a parlare per un paio d’anni, ma sempre più sommessamente e con toni rituali e poco convinti. Fu archiviata in silenzio.

Con l’exit strategy si era provato a dire che la medicina era tossica, certo, ma che si sarebbe smesso presto di assumerla. Con la normalizzazione si proclamò invece qualcosa di più forte e impegnativo, ovvero l’avvenuta guarigione. Si era usciti in piedi dal brutto periodo a cavallo tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016, c’era molto ottimismo nei mercati e il mercato del lavoro cominciava a mostrare segni di forza consistente. Cresciuti nel culto della curva di Phillips, i policy maker erano convinti che l’inflazione salariale era dietro l’angolo. Aspettarono qualche mese per non danneggiare la Clinton e poi, una volta eletto a sorpresa Trump, non ebbero più esitazioni e lanciarono un grande ciclo di rialzi dei tassi, che nelle intenzioni avrebbe dovuto proseguire fino alla fine del 2020.

Al tempo stesso, non paghi, lanciarono un altrettanto ambizioso programma di Quantitative tightening, che si sarebbe dovuto chiudere nel 2021 dopo avere smantellato metà del Quantitative easing precedente. Aiutati dall’attesa degli zuccheri fiscali che Trump avrebbe distribuito con il taglio delle imposte per le imprese, i mercati incassarono molto bene la normalizzazione monetaria, che nel frattempo si era estesa all’Europa e al Giappone. Con l’Europa già di nuovo indebolita da una recessione manifatturiera iniziata nell’estate, la Bce volle a tutti i costi (per impulso tedesco) porre termine, alla fine del 2018, l’esperienza del Qe. Fu una questione di puntiglio, di orgoglio, di hybris. Ci si proclamò guariti proprio mentre ci si stava di nuovo ammalando. Il Giappone, più sornione, confuse le carte e si limitò a rendere flessibile il Qe, tenendolo comunque in piedi e stando bene attento che i tassi rimanessero a zero sul decennale.

Oggi la normalizzazione è finita, ma non perché il mondo è ritornato normale quanto perché è ritornato anormale. Intendiamoci, non stiamo entrando in una recessione globale, ma stiamo rientrando a poco a poco nel liquido amniotico in cui abbiamo vissuto tra il 2009 e la fine del Qe. Le banche centrali, che avevano cercato di svezzare i mercati e di farli camminare con le loro gambe, se li ritrovano ora di nuovo sotto le sottane, per ora più capricciosi che spaventati, a dire il vero.

Alla normalizzazione va riservato l’onore delle armi. È stata corretta come idea in America, anche se è stata realizzata con troppa energia. Ha tenuto bassa l’inflazione, anche qui fin troppo. Ha tolto dallo stato ipnotico i mercati almeno per qualche tempo e li ha obbligati a ragionare di nuovo con la loro testa. Anche l’economia ha retto, tutto sommato, sia al rialzo dei tassi sia all’avvio della deglobalizzazione.

Ora però l’idea ormai prevalente è quella di ritornare a passare quel che resta del ciclo espansivo (un tempo non necessariamente breve, che dipenderà molto dalle presidenziali americane dell’anno prossimo) nel tepore della benevola protezione delle banche centrali, in attesa della spesa pubblica dei governi del prossimo decennio.

Con la scusa delle guerre commerciali (che per ora non hanno fatto tutti questi danni, anche se in futuro potrebbero farli) i mercati, senza neanche troppo sforzo, hanno convinto le banche centrali prima a sospendere la normalizzazione (in dicembre) e ora a organizzare il ritorno all’emergenza come condizione permanente. Si scontano già quasi tre ribassi dei tassi in America, il Quantitative tightening verrà chiuso in fretta in settembre mentre Draghi dichiara che per il Qe, mandato in pensione in attesa di Weidmann, c’è di nuovo ampio spazio.

D’altra parte, se il Qe ha notoriamente effetti collaterali spiacevoli, i tassi negativi profondi che ci toccherebbero in alternativa se ci lasciassimo andare a una nuova recessione sarebbero una chemioterapia che tutti, per prime le banche centrali, cercheranno il più a lungo possibile di risparmiarsi.

Confortato dall’atteggiamento più disponibile delle banche centrali, qualcuno, senza perdere tempo, ha ipotizzato nuovi massimi di borsa in tempi brevi. Ci sembra troppo, al momento, perché la Fed, pur essendosi rassegnata alla possibilità di tagliare i tassi nei prossimi mesi, cercherà, almeno all’inizio, di tirare in lungo, centellinando i tagli. È dunque possibile che i mercati restino parzialmente delusi e facciano altri capricci, sapendo peraltro bene che, alla fine, una Fed ideologicamente sempre più fluida verrà comunque loro incontro.

Significa questo che gli asset finanziari non scenderanno mai più? No di certo. Verrà comunque un giorno in cui l’economia globale andrà in recessione o l’inflazione tornerà a scendere o a salire troppo. Finché però la crescita rimarrà globalmente positiva e l’inflazione resterà in un range ragionevole, bond e azioni troveranno un supporto, come nei tempi migliori del Qe.

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