Brexit e banche centrali infiammano i mercati

Il primo semestre dell’anno è stato particolarmente positivo, con performance a doppia cifra sia per azionario che per molte categorie dell’obbligazionario, specialmente a lunga duration. Per trovare un inizio dell’anno comparabile dobbiamo tornare al 2003. Anche allora la politica monetaria fu un driver, con la FED che abbassò i tassi dal 6.5% al 1.5% nel 2001 e nel 2002. Non stupisce l’ottima performance dell’obbligazionario nell’anno successivo. E’ quanto sottolinea nel suo commento sui mercati Roberto Rossignoli, Portfolio Manager di Moneyfarm.

Ad oggi la situazione è diversa, prosegue l’esperto: i mercati hanno reagito a un cambio delle aspettative ma i tagli dei tassi d’interesse non hanno ancora avuto luogo. Un anno fa il tasso era poco inferiore al 2%, e le probabilità implicite alle quotazioni di mercato implicano un livello dei tassi tra il 2.5% e il 3% per la fine del 2019. Ora invece il mercato è posizionato attorno al 1,75%/2%, un cambiamento radicale di aspettative che ha avuto conseguenze per molte asset class. Il decennale Usa è sceso di oltre l’1%, generando performance molto positive per l’obbligazionario a lunga duration, e probabilmente offrendo supporto anche alla valutazione azionarie nonostante un momentum negativo nella crescita degli utili societari.

“Siamo abituati dagli anni 90 a vedere una correlazione tassi d’interesse e azionario positiva (i tassi d’interesse scendevano, per dinamiche accomodanti di politica monetaria e inflazione contenuta mentre nello stesso momento l’azionario andava attraverso due forti periodi di drawdown, 2001 e 2008). Quest’anno il quadro sembra essere diverso, con i tassi che sono scesi e l’azionario è salito, grazie all’attivismo della politica monetaria. Cattive notizie sull’economia sono diventate buone notizie per l’azionario“, nota Rossignoli.

“Prima degli ultimi 30 anni – continua – la correlazione tra bond (yield) ed equity era invece negativa, in quanto tassi più bassi aumentano le valutazioni azionarie e incrementano l’appealing relativo dell’azionario. Chiave nel cambio di paradigma è stata la scarsa inflazione lungo tutto il periodo: storicamente infatti notiamo come all’aumentare dell’Inflazione, la correlazione tra bond ed azionario diventi sempre più negativa, e viceversa (il grafico mette in correlazione il livello di inflazione sull’asse verticale e la correlazione sull’asse orizzontale) Quindi sembra che il recente cambio di correlazione possa farci sperare in un’inflazione al rialzo”.

Fed put?

L’ultimo meeting della Federal Reserve, come da attese, ha consegnato ai mercati un taglio dei tassi d’interessi di 25 punti base. La mossa era stata largamente anticipata, anzi, l’incontro era stato caricato di tali aspettative che i mercati sono rimasti in qualche modo delusi di fronte a una retorica accomodante, ma non come si aspettavano.

Secondo Rossignoli si possono dare diverse interpretazioni a questa mossa della banca centrale. Alcuni insistono sul fatto che la Fed sembri molto (troppo) attenta alle performance azionarie, considerando di fatto la stabilitá dei mercati come un mandato aggiuntivo rispetto a quelli previsti dallo statuto (disoccupazione e inflazione). Altri sottolineano che la mossa di Powell sia stata in qualche modo innovativa: ha preferito prevenire piuttosto che curare, anche forzato dal fatto che in caso di una recessione il margine per tagliare i tassi è molto limitato rispetto ai precedenti cicli economici.
In ogni caso, Powell è stato chiaro: per ora non siamo ancora all’inizio di un nuovo ciclo di tagli, questa riduzione è stata solo un aggiustamento temporaneo. Si tratta di una dichiarazione importante, volta forse a ribadire la sua indipendenza politica rispetto alle ingerenze della Casa Bianca. Con una certa malizia il presidente Trump, dopo avere pubblicamente mostrato la propria delusione per la posizione a suo avviso non sufficientemente accomodante del governatore, ha annunciato un nuovo giro di dazi sui beni importati dalla Cina, riportando la volatilità sui mercati.

Sebbene sia difficile quantificare la relazione tra performance di mercato e movimento dei tassi, è indubbio che nell’ultimo anno le performance S&P 500 hanno orientato le aspettative degli operatori riguardo la politica monetaria. I mercati, spiega ancora Rossignoli, si erano affidati al “Fed put” (ovvero la garanzia implicita del sostegno della Banca Centrale alle performance azionaria). La prima volta di cui si è parlato di questo é stato nel 1998, quando Greenspan abbasso i tassi per ammorbidire l’impatto sui mercati del fallimento di LTCM. L’idea di fondo é che gli obiettivi di massimo impiego e stabilitá dei prezzi siano in qualche modo collegati con una performance stabile dei mercati finanziari, che pertanto costituisca una sorta di terzo mandato implicito.

Un’attenta analisi dei resoconti del FOMC (il consiglio direttivo della Fed) e dei discorsi dei banchieri centrali sembra proprio dimostrare come la Fed sia molto attenta all’effetto delle performance azionarie sui consumi e sulla percezione di ricchezza dei consumatori e sugli investimenti delle società, visto che i cali azionari aumentano il costo del capitale. Secondo i critici, incorporando una put sui mercati azionari, la Fed ha avuto il demerito di far lievitare le valutazioni, abbassando così i rendimenti futuri a discapito delle performance presenti. Qui sotto il frutto di una ricerca (Cieslak e Vissing Jorgensen) che ha misurato l’aumento del numero dei riferimenti azionari nel comitato operativo della Fed.

(fonte: http://faculty.haas.berkeley.edu/vissing/cieslak_vissingjorgensen.pdf)

Il tasso di occupazione negli Usa era in passato l’indicatore principale per orientare le aspettative dei mercati su inflazione e politica monetaria. Il tasso di disoccupazione negli Usa è oggi al 3,7%. Uno dei livelli più bassi degli ultimi 25 anni. Gli scarsi effetti sull’inflazione della piena occupazione ci suggeriscono come il tasso di disoccupazione sia oggi un indice non del tutto adeguato per misurare lo stato di salute del mercato del lavoro. Tutti questi aspetti ci ricordano come sia importante aggiornare continuamente i nostri strumenti per prevenire la politica monetaria.

Brexit: chi vince e chi perde?

A oltre tre anni dal referendum in cui i cittadini britannici hanno votato per la Brexit è interessante analizzare alcune tendenze. In questi giorni l’elezione di Boris Johnson ha determinato un rapido apprezzamento delle prospettive di una Brexit dura senza accordo. La reazione sui mercati finanziari è stata ambivalente: le aziende più piccole, legate al mercato domestico, hanno sottoperformato le grandi multinazionali. Pur non sorprendendo, l’esperto di Moneyfarm nota che questa dinamica ci ricorda che eventi come la Brexit hanno vinti e vincitori. I movimenti più significativi hanno riguardato l’inflazione e la sterlina.

Come si può notare, il pound ha perso circa il 20% del proprio valore, raggiungendo il punto di minimo proprio in questi giorni in concomitanza con l’arrivo di Johnson a 10 Downing street. Il livello dei prezzi è invece salito costantemente (anche a causa del deprezzamento della moneta) con l’indice retail che ha fatto registrare aumenti superiori anche al 4% l’anno nonostante livelli di crescita economica in costante rallentamento (nell’ultimo trimestre l’economia si è contratta dello 0,2%). Se si analizzano i segmenti di beni che hanno determinato l’aumento dei prezzi, si nota che la maggior parte dei rincari sono arrivati dal settore dei beni di consumo e dei trasporti.

Durante il referendum del 2016, uno dei cavalli di battaglia dei leavers è stata proprio riduzione del prezzo delle abitazioni per i cittadini inglesi. Secondo i promotori della Brexit, un’uscita dall’Ue avrebbe riproporzionato la domanda e l’offerta degli immobili, i cui prezzi crescevano in maniera esponenziale da anni. Dopo il 2016 abbiamo effettivamente assistito a un assestamento del prezzo delle case che era cresciuto tra il 2010 e giugno 2016 del 66%, e che dal 2016 a oggi ha avuto un tasso di crescita di circa –3,8%. La frenata del valore immobiliare, puntualizza Rossignoli, era già in atto già in precedenza un po’ per ragioni cicliche un po’ per alcuni interventi del governo.

Tuttavia, la riduzione dei prezzi delle abitazioni deve essere analizzata in termini relativi per capire se tale fenomeno favorisce il cittadino o è il risultato di una minor crescita economica. Bisogna dunque analizzare il rapporto tra reddito delle famiglie e prezzo degli immobili. Dal 2016 a oggi, il clima di incertezza politica e regolamentare potrebbe aver di fatto rallentato la crescita economica più di quanto abbia frenato i prezzi delle case. Gli investimenti diretti esteri sono passati da 192 miliardi a 92 miliardi di sterline, ed è difficile assumere che tale decremento sia totalmente indipendente dall’esito del referendum.

Inoltre, l’aumento dei prezzi al consumo derivante dalla svalutazione del pound sicuramente ha impattato negativamente il potere d’acquisto dei cittadini. L’Housing affordability index indica la capacità di una famiglia (si pensi a un nucleo di due persone) con reddito mediano di comprare una proprietà di valore mediano. Un valore inferiore a 100 indica che l’income mediano non è sufficiente a coprire il costo di un immobile. A Londra l’indice ha visto un aumento tra il 2009 e il 2015, quando ha raggiunto il picco di 107. Ad oggi tale indicatore è pari a 90 punti; una famiglia con reddito mediano necessita di entrate superiori del 10% per permettersi una casa di proprietà: anche in questo caso, conclude Rossignoli, l’effetto della Brexit sembra essere stato per il momento negativo.

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