I mercati emergenti beneficeranno della rotazione da growth a value

A cura di Wim-Hein Pals, responsabile del team Emerging Markets e Arnout van Rijn, Cio Asia Pacifico di Robeco

Negli ultimi venticinque anni l’universo d’investimento dei mercati emergenti è mutato radicalmente. A metà degli anni ’90 Messico e Malaysia avevano ancora un peso preponderante. Oggi la Cina gioca un ruolo dominante e l’Asia rappresenta quasi tre quarti dell’indice dei mercati emergenti, mentre l’America Latina è stata duramente penalizzata dal calo dei prezzi delle materie prime.

La scarsa attenzione per gli azionisti, con bilanci caratterizzati da un’abbondanza di capitale proprio oneroso e una bassa distribuzione dei profitti, rende difficile conseguire rendimenti in questa parte del mondo nonostante la crescita sostenuta. Di contro, nonostante i tassi di crescita più contenuti, in America Latina molte imprese generano ancora rendimenti sostanziali. Questo è dovuto ai metodi gestionali di stampo anglosassone: le aziende sono gestite negli interessi degli azionisti. Se le imprese asiatiche dovessero vedere gli azionisti in un’ottica più simile a quella americana potrebbero anche adottare una struttura di bilancio più efficiente. Queste aziende considerano il capitale proprio alla stregua di denaro gratuito, anche quando la situazione patrimoniale renderebbe più efficiente l’assunzione di prestiti, migliorandone la redditività.

Inoltre, molti amministratori di società asiatiche vedono ancora nella distribuzione di dividendi un segnale di debolezza. Le nuove generazioni capiscono meglio la questione, e gli investitori previdenziali locali che desiderano dividendi più elevati iniziano a far sentire la loro voce. Consideriamo ad esempio la Corea del Sud, dove il payout ratio (la quota dei profitti distribuita agli azionisti) è salita da un misero 17% al 30%. Si tratta comunque di una percentuale ancora inferiore a quella di Taiwan (60%) e nettamente più bassa della media mondiale (40%). Le discussioni con i consigli di amministrazione costituiscono la base della politica Esg nei mercati emergenti: migliorare le prassi di gestione in modo tale che la crescita economica si traduca anche in una crescita più elevata dei profitti e delle distribuzioni. Per gli investitori i benefici sono molteplici: un aumento dell’utile per azione e dei dividendi può condurre anche a rapporti prezzo/utili più elevati.

Titoli value o growth?

Attualmente i titoli azionari dei mercati emergenti sono nettamente sottovalutati. I multipli prezzo/utili incorporano uno sconto del 30% rispetto ai mercati sviluppati, a fronte di una media storica del 10%, a titolo di compenso per il maggior rischio e la minore liquidità. Crediamo che lo scarto tra le valutazioni dei mercati emergenti e sviluppati sia destinato a svanire gradualmente. È importante ricordare, però, che la crescita economica non è sempre favorevole per i mercati, per cui gli investitori non dovrebbero fissarsi su questo aspetto. Il tasso di espansione continuerà a superare quello dei mercati sviluppati nel prossimo futuro, tuttavia, ciò che conta maggiormente è la redditività del capitale proprio.

In termini generali, preferiamo i titoli value a quelli growth. I primi hanno riscosso un maggior favore di recente, in seguito al miglioramento della performance globale dei secondi negli ultimi dieci anni. Negli Stati Uniti i Faang (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) hanno generato rendimenti che nessun settore è in grado di eguagliare. I mercati emergenti possono beneficiare ancora di più della rotazione dai titoli growth ai value, poiché si trovano molte più società sottovalutate qui che nei mercati sviluppati. Anche per questo motivo i prossimi dieci anni potrebbero essere il decennio dei mercati emergenti.

L’andamento delle valute locali può avere un impatto determinante sulla performance degli investitori nei mercati emergenti, anche in presenza di una valida selezione dei titoli. Venticinque anni fa si registrava una crescita significativa abbinata a enormi disavanzi commerciali. Oggi molti paesi emergenti presentano surplus consistenti. Ciò significa a sua volta che le valute sono molto meno vulnerabili e le economie molto più solide. Le crisi tuttavia continuano a diffondersi ai paesi deboli. Cerchiamo di evitare i Paesi che presentano un disavanzo, un approccio che si è rivelato premiante nel lungo periodo. Per quanto riguarda la Cina, siamo poco entusiasti dell’industria tradizionale, alla quale preferiamo i beni di consumo. La traduzione della crescita economica in crescita degli utili avverrà principalmente nella ‘nuova’ Cina. Queste, inoltre, sono anche le aziende meno influenzate dalla guerra commerciale.”
Inutile a dirsi, l’universo emergente è tutt’altro che statico. Vietnam e Pakistan – attualmente classificati come “mercati di frontiera” – sono stati nominati per una promozione allo status di “mercati emergenti”. Analogamente, tra dieci anni Corea del Sud e Taiwan saranno probabilmente considerati economie sviluppate. In questo senso, la Cina è dunque un fattore di stabilizzazione nel segmento dei mercati emergenti.
Nel complesso i mercati emergenti hanno un peso del 13% negli indici globali, anche se rappresentano il 60% dell’economia mondiale. Ciò è dovuto in parte alla sottovalutazione e al minor numero di società quotate. La situazione è destinata a cambiare. Un fattore di sostegno è la professionalizzazione dei mercati locali: gli investitori retail, le cui decisioni d’investimento sono spesso basate su congetture, attualmente la fanno da padrone. Ma il mercato sta assumendo connotati sempre più istituzionali, grazie alla crescita dei fondi pensione e delle compagnie assicurative. Questi ultimi non investono sulla base di suggerimenti, ma considerano i fattori che generano buoni rendimenti a lungo termine.

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