Hong Kong non impedirà un accordo tra America e Cina

A cura di Alessandro Fugnoli, Strategist di Ksiros

La rivoluzione ungherese del 1956 fu breve, convulsa, grandiosa e tragica. Iniziò il 23 ottobre nel pomeriggio con una manifestazione studentesca, si allargò a sera in una dimostrazione spontanea di 200mila persone nelle strade di Budapest. La polizia politica sparò contro la folla e ci furono i primi morti. Il governo si dimise. Alle due di notte i carri armati sovietici entrarono in città e la occuparono.

La resistenza, nei giorni successivi, fu fortissima. Una rete di contropotere popolare si insediò capillarmente al comando del paese. L’esercito ungherese, in larga misura, si schierò con gli insorti. Non era una controrivoluzione. L’Ungheria era stata fascista, ma questa era una rivoluzione democratica e neutralista, appoggiata da tutti gli strati popolari. Il maresciallo Zhukov, eroe della Seconda Guerra Mondiale e comandante in capo dell’Armata Rossa, lo capì e ne trasse le conseguenze, proponendo a Khruscev di ritirarsi e di accettare la nuova Ungheria democratica.

Khruscev, che solo in febbraio aveva esposto pubblicamente i crimini di Stalin, tentennò. Curiosamente, ma non troppo, furono i cinesi a convincerlo a usare la mano pesante. E non fu solo Mao a invocare la forza, ma anche il suo numero due Liu Shaoqi, il riformista che tredici anni più tardi sarebbe morto sotto tortura in un campo di concentramento durante la Rivoluzione Culturale e che sarebbe stato poi ripreso a modello da Deng Xiaoping.

E il 4 novembre forza fu, con un enorme dispiegamento di truppe corazzate, artiglieria e aviazione. L’esercito ungherese combatté strada per strada contro i sovietici ma fu presto sopraffatto. Tremila i morti. Decine di migliaia i deportati. Trecento gli impiccati, tra cui il primo ministro Nagy. Stalin era uscito di scena da tre anni e si era in piena destalinizzazione, ma la rigidità del modello politico terzinternazionalista e la geopolitica rendevano praticamente impossibili soluzioni di compromesso. E in questa rigidità continuarono a finire intrappolati anche i riformisti, da Liu Shaoqi (Budapest) a Deng Xiaoping (Tienanmen 1989) e, probabilmente, Xi Jinping (Hong Kong), che si propone come sintesi tra Mao e Deng.

L’Occidente uscì molto male dai fatti d’Ungheria. Mentre Radio Free Europe incitava alla rivolta e spiegava come lanciare bottiglie incendiarie contro i carri armati, il capo della Nato dichiarava cinicamente che quello ungherese era il suicidio di un popolo. In pratica gli Stati Uniti non mossero un dito. C’erano Yalta e la paura della guerra atomica, certo, ma c’era anche l’imbarazzo di condannare l’Unione Sovietica come invasore quando esattamente negli stessi giorni Francia e Gran Bretagna provavano a riprendersi militarmente il canale di Suez nazionalizzato da Nasser.

Le ripercussioni degli scontri di Hong Kong sui negoziati Usa-Cina

Sono lezioni per l’oggi, nel momento in cui il Congresso ha appena approvato una risoluzione a sostegno di Hong Kong. C’è una parte di sincera solidarietà e c’è anche la voglia di mettere in difficoltà Trump nelle sue trattative con la Cina. Pechino ha reagito con molto fastidio, ma senza forzare. E non forza nemmeno il Congresso, a ben guardare, perché le sanzioni eventuali non sarebbero contro la Cina, ma solo contro il governo di Hong Kong.

Per Hong Kong, d’altra parte, si parla di una soluzione tibetana, un insieme di repressione non troppo sanguinosa e di ripopolamento graduale con cinesi Han della madrepatria. Soluzione non facile, dal momento che i problemi di Hong Kong non sono etnici, ma politici.

In pratica Hong Kong non sarà un serio ostacolo per i negoziati commerciali se i cinesi avranno l’accortezza di non usare la mano troppo pesante fino al raggiungimento dell’accordo sulla Fase Uno. Lo stesso senatore Rubio, un anticomunista da Guerra Fredda, accetta i negoziati e non si mette di traverso.

Per il resto l’accordo è pronto da mesi, è un minimo comune denominatore con qualche ambizione sulla carta ma, nell’attuazione pratica, verosimilmente modesto. Se non si è ancora arrivati alla firma è perché entrambe le parti hanno bisogno di non mostrare segni di debolezza per ragioni di politica interna. In particolare Trump, sotto impeachment, deve evitare di apparire arrendevole e di essere quello che baratta la propria sopravvivenza politica con un accordo al ribasso.

È per questo che i negoziati tra America e Cina raggiungono un compromesso (sempre lo stesso, quello di maggio) ma ritornano ogni volta al punto di partenza. I mercati lo stanno imparando e reagiscono sempre meno agli alti e bassi. È come nelle saghe cinematografiche o televisive. Anche quando la serie finisce, si lascia sempre un appiglio per riprenderla più avanti, quando ce ne saranno le condizioni. America e Cina non possono mettersi d’accordo, se non su piccole cose, ma non possono nemmeno rompere.

La reazione dei mercati

I mercati approfittano degli ultimi intoppi (legati al mantenimento delle tariffe come garanzia per l’applicazione dell’accordo) per prendersi una pausa. C’era ipercomprato e il sentiment, dalle paure di agosto, era risalito fino a sfiorare l’euforia. Tutte le volte che si parla di meltup, di breaking out, di Fomo i mercati, invece di accelerare sul serio, si fermano e si ripuliscono.

Al netto delle trattative commerciali e di una fiammata di fine anno, questa fase interlocutoria si può prolungare per qualche settimana. Il ciclo economico globale sta mostrando segni di stabilizzazione convincenti, ma non ancora segni di riaccelerazione. Per questi occorrerà aspettare l’anno nuovo.

Nel frattempo i tassi e il Qe ci mantengono in una condizione artificiale ma confortevole. Quanto alla politica, il fatto che l’astuto e pragmatico Buttigieg stia superando nei consensi una Warren avvitata sul suo dottrinarismo lascia spazio alla possibilità di un secondo semestre 2020 meno agitato di quello che si cominciava a pensare.

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