Le sfide dell’Europa per la creazione di un’agenda di crescita condivisa

A cura di Florence Pisani, Global Head of Economic Research di Candriam

Esiste il rischio che l’Eurozona rimanga bloccata in un lungo periodo di stagnazione? La questione merita di essere discussa in uno scenario in cui la crescita è in fase di stallo sia in Germania che in Italia, mentre l’area euro ha visto la crescita scendere sotto l’1%, nonostante una politica monetaria accomodante.

Se domani dovesse scoppiare uno shock economico, l’Europa non saprebbe come muoversi e la Bce ha già fatto molto. I suoi tassi d’interesse si muovono in territorio negativo e la sua politica monetaria sta avendo un impatto sempre minore sull’attività economica, mentre gli effetti collaterali diventano sempre più evidenti: facendo salire i prezzi dei settori immobiliare e finanziario, la banca centrale si è infatti assunta il rischio di vedere formarsi graduali bolle speculative.

Per quanto riguarda l’altro pilastro della politica economica, ovvero la politica fiscale, questo strumento non è praticamente più utilizzato per stimolare l’attività finanziaria: molti Paesi stanno infatti lottando con un debito pubblico elevato e il patto di Bilancio europeo, firmato nel 2012, vieta agli Stati membri dell’Ue, il cui debito supera il 60% del Pil, di indebitarsi ulteriormente.

Quindi, a meno che il trattato non venga revocato, questa strada porta fondamentalmente ad un vicolo cieco… soprattutto perché i pochi Paesi che hanno ancora un po’ di spazio di manovra esitano a usarlo. La Germania per esempio, che è fortemente influenzata dall’ordoliberalismo, non vede alcuna emergenza e non crede che siano necessari stimoli fiscali. Con un tasso di disoccupazione appena superiore al 3%, è anche vero che la sua economia è molto vicina alla piena occupazione.

Quindi, l’Europa è davvero condannata alla stagnazione? La banca centrale ha pochi strumenti per spingere l’attività economica, anche se la neopresidente Christine Lagarde ha dichiarato che “c’è un fondo per ogni cosa, ma in questo momento non siamo ancora giunti a quel punto”. Quando si tratta di politica fiscale, tuttavia, i confini sono meno evidenti. In passato, quando è stato necessario, l’Europa è sempre stata in grado di trovare un suo spazio di manovra, e al momento la necessità è più urgente di quanto non sembri a prima vista. In primis, perché un’economia stagnante è un’economia vulnerabile: ogni piccolo shock può facilmente spingerla verso la recessione. In secondo luogo, finché l’Europa non ritornerà sulla strada della crescita sostenibile, faticherà a riconquistare il sostegno dell’opinione pubblica.

Infine, la zona euro sta affrontando un grave deficit di investimento poiché, dall’inizio del 2000, le spese in conto capitale sono cresciute tre volte più lentamente rispetto agli Stati Uniti e, negli ultimi due decenni, gli investimenti pubblici al netto degli ammortamenti non sono minimamente aumentati.

Il compito che attende la nuoca Commissione Ue

La nuova Commissione europea ha davvero un peso considerevole sulle spalle. La presidente Ursula von der Leyen si è data 100 giorni per mettere in atto un green deal per rendere l’Europa entro il 2050 “il primo continente climate-neutral”. A tal fine, propone di trasformare una parte della Banca europea per gli investimenti in una Climate Bank e lanciare un “piano di investimenti per l’Europa sostenibile” volto a raccogliere 1.000 miliardi di euro nel corso del prossimo decennio.

Un piano encomiabile, ma non accadrà nulla se non sarà approvato da tutti i governi dell’Unione Europea. Inoltre, l’obiettivo è meno ambizioso di quanto sembri. Il progetto è tratto dal Piano Juncker, istituito sulla scia della crisi del debito sovrano. Elaborato per rimettere in piedi l’economia europea, negli ultimi cinque anni è stato finanziato con la garanzia di bilancio delle Ue per appena 26 miliardi di euro, e con soli 7,5 miliardi di euro di capitale, con il contributo della Bei (cioè meno di 0,1 punti di Pil della zona euro all’anno). Inoltre, bisogna sottolineare che i progetti finanziati dal piano Juncker non sarebbero stati attuati in qualsiasi caso.

L’Eurozona si trova attualmente in una situazione paradossale. Contrariamente ai luoghi comuni, non è affatto al di sopra dei propri mezzi. Basta dare un’occhiata al surplus delle partite correnti: nel complesso, i suoi operatori economici (famiglie, imprese e governi) spendono circa quasi 400 miliardi di euro all’anno in meno di quanto guadagnano. Tuttavia, le sue stesse regole impediscono all’area euro di impiegare quel denaro per generare ulteriore crescita. In ultima analisi, spetta agli Stati membri assumersi le proprie responsabilità e investire in modo costruttivo per prepararsi al futuro.

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