La Camera dei Rappresentanti, come ampiamente previsto, ha deferito ieri sera il capo della Casa Bianca dinanzi al Senato, per un processo che vede Donald Trump accusato di “abuso di potere” e “ostruzione del Congresso” per la controversa telefonata fra lo stesso presidente e l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky.
Sul primo articolo di messa in stato l’accusa, la Camera si è espressa con 230 voti a favore e 197 contrari. Il secondo è passato con 229 voti a 198. In entrambi i casi due democratici, Collin Peterson e Jeff Van Drew, si sono pronunciati contro la messa in stato di accusa del presidente.
Pochi minuti prima, un sondaggio commissionato dall’emittente televisiva NBC News e dal Wall Street Journal aveva disegnato un’America spaccata in due sull’argomento, con una perfetta parità del 48% tra favorevoli e contrari, a fronte di un 4% di astenuti.
Mentre Trump ha sfogato la sua rabbia in un comizio a Battle Creek nel Michigan, il capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha già ribadito che non c’è nessuna possibilità che in gennaio si arrivi effettivamente a una destituzione: occorrerebbe la maggioranza dei due terzi dei voti, ma i repubblicani ne detengono 53 su 100 e quindi una ventina di loro dovrebbe lasciarsi convincere dagli argomenti dei 45 democratici (i due restanti sono eletti indipendenti).
Prima di Trump, Andrew Johnson dopo la Guerra di Secessione e Bill Clinton nel 1998 avevano dovuto affrontare il processo al Senato, uscendono entrambi vincitori. Richard Nixon aveva invece evitato la rimozione dimettendosi lui stesso per il caso Watergate.
Ieri l’indice S&P 500 ha archiviato la seduta con un ribasso dello 0,04% mentre il cambio Euro/Dollaro si è rafforzato quotando ora a 1,11307.