I primi vent’anni del Ventunesimo secolo

A cura di Alessandro Fugnoli, Strategist di Kairos

Quando si compiono vent’anni si aspetta la fine del ventesimo anno per festeggiare. Lo si fa per le persone, ma non lo si fa quasi più per il calendario. Il nostro mondo ha compiuto duemila anni il 31 dicembre 2000, ma tutti abbiamo festeggiato il 31 dicembre 1999. In base a questo nuovo modo di conteggiare la storia, questo, per la nostra nota, è l’ultimo numero del primo ventennio del XXI secolo. È tempo di auguri, ma anche di bilanci e, per i temerari, di previsioni.

George Friedman (lo studioso di geopolitica, non il giornalista) ha fatto qualche anno fa un piccolo esercizio ed è andato a vedere come si è immaginato il mondo nei vent’anni a venire nel 1900, nel 1920, nel 1940, nel 1960 e nel 1980. In nessuno di questi casi si è realizzato il tema conduttore delle previsioni di consenso (pace e prosperità nel 1900, una lunga pace dopo la guerra e una Germania debole nel 1920, il dominio nazista sull’Europa nel 1940, il dominio dell’America sul mondo nel 1960 e quello dell’Unione Sovietica nel 1980). In tutti i casi il vero tema di fondo del ventennio è arrivato completamente imprevisto.

Per non parlare delle previsioni del 2000. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica tutti, sulla direttrice Hegel-Kojève-Fukuyama, profetizzarono la fine dei conflitti e della storia e il dilagare del modello liberale occidentale nelle immensità dell’Eurasia e nel mondo postcoloniale. Il tutto sotto l’occhio attento e benevolo dell’unica iperpotenza rimasta, gli Stati Uniti, e in un clima di eccitazione (esattamente come nel 1900) per la rivoluzione tecnologica, che sembrava avviata verso un’accelerazione esponenziale.

Che cosa rimane delle previsioni di vent’anni fa

Vent’anni dopo vediamo che gli Stati Uniti, nonostante la Grande Recessione del 2008, sono effettivamente cresciuti, dal 2000, del 41 per cento, il doppio del 20 per cento dell’Europa. La Cina, però, è cresciuta del 600 per cento (tutto misurato in dollari) e ha respinto l’omologazione politica e ideologica all’Occidente. Sviluppando un suo modello alternativo confuciano-autoritario è diventata anzi il secondo protagonista di un mondo ritornato bipolare. Nel frattempo la globalizzazione si è arrestata e la rivoluzione tecnologica, pur allargando enormemente il suo bacino di utenza, ha segnato il passo sul piano qualitativo.

A parte la Cina, il mito dei paesi emergenti si è fortemente ridimensionato. L’economia russa ha oggi dimensioni paragonabili a quelle del Benelux. Il Sudafrica e la Nigeria faticano a tenersi insieme. Brasile e India rimangono vittime di mali antichi.

All’inizio del 2000 la borsa americana era nel punto più alto della grande bolla di Internet. Ciò nonostante, da allora, è più che raddoppiata (come il Pil nominale, mentre il Pil reale, come abbiamo visto, è cresciuto del 41 per cento). Sono esplosi i margini di profitto ed è di questa esplosione che sentiremo fortemente la mancanza nei prossimi vent’anni. Nel 2040 gli utili non saranno molto più alti di oggi e, soprattutto, saranno appannaggio, in buona misura, di società che forse oggi ancora non esistono, mentre molto di quello che esiste sparirà.

Si pensi al fintech in Asia. Società nate tre anni fa capitalizzano più di grandi banche con una storia secolare alle spalle, proprio mentre l’Europa riduce a utilities le sue banche tradizionali. Come vent’anni fa ai tempi di internet, la scelta difficile è tra comprare a buon mercato nomi gloriosi ma incapaci di rinnovarsi o chiudere gli occhi e buttarsi su nomi nuovi carissimi, sapendo che la metà di loro non sopravvivrà alla prossima recessione.

L’Unione Europea produceva nel 2000 il 30 per cento del Pil mondiale (a parità di potere d’acquisto). In soli vent’anni la sua quota si è dimezzata al 15 e se escludiamo un’implosione della Cina continuerà a scendere nei prossimi decenni. Il Green New Deal europeo sarà un tentativo di riscatto, ma non andrà lontano se sarà fondato su una massiccia reregulation e non su risorse fiscali. L’Europa ama predicare al mondo l’ecologia, ma inquina come dieci anni fa. Il Texas, da solo, produrrà fra poco più rinnovabili della Germania.

L’Occidente, nei prossimi vent’anni, si troverà di fronte a scelte difficili. Verso l’esterno dovrà decidere che atteggiamento avere nei confronti della Cina. La linea morbida darà soddisfazioni di breve (mantenimento dei livelli di export e di filiere produttive parzialmente integrate) ma lascerà spazio alla Cina per crescere come rivale dell’America sul piano tecnologico (e, in prospettiva, militare) in un numero crescente di settori. La linea dura rallenterà la crescita nel breve, esporrà al rischio di recessione e di cadute di borsa e renderà meno improbabili prove di forza localmente anche militari.

Sul piano interno l’Occidente dovrà continuare a fare i conti con un dissenso sociale endemico e destabilizzante finché non riuscirà, per via fiscale, a riprendere a crescere a un buon ritmo. Dove questo dissenso verrà recuperato attraverso un compromesso reflazionista con una parte dell’establishment (come è il caso di America e Regno Unito) la crescita faciliterà il mantenimento dell’equilibrio. Dove l’establishment continuerà con le politiche dei vent’anni passati, alternative reflazioniste radicali di destra o di sinistra diverranno più probabili, soprattutto in caso di recessione.

È probabile che l’approccio reflazionista, alla fine, prevalga dappertutto per una semplice questione di selezione darwiniana. Chi proporrà austerità verrà prima o poi mandato a casa. In questo scenario, nel lungo termine, l’azionario offrirà più spazio dell’obbligazionario.

Se fare previsioni di lungo è un esercizio coraggioso ma quasi impossibile, quello che si può cercare di fare è di essere mentalmente aperti. Pensare che il futuro sarà una continuazione e un approfondimento del presente viene istintivo, ma non è quasi mai vero. Fra vent’anni la Cina o sarà la prima potenza o sarà scivolata indietro (la seconda ipotesi ci sembra più probabile), ma certamente il suo rapporto di forza con gli Stati Uniti non sarà lo stesso di oggi. Il Regno Unito o si scioglierà o diverrà la maggiore economia europea, seguita forse dalla Polonia. La Francia tornerà a essere più forte (o meno debole) della Germania, come è stata per molti secoli.

Il futuro è uno spazio esotico e alieno. Se potessimo, oggi, passare un giorno nel 2040 proveremmo un profondo senso di straniamento. È così anche per il passato. Se ci sembra familiare è solo perché sappiamo come è andata a finire, ma le paure, le speranze e i valori di chi ci ha preceduto anche di una sola generazione, al di là delle costanti antropologiche, ci risultano misteriosi e quasi incomprensibili.

Prospettive per il 2020

Rifugiamoci allora nel futuro immediato. Da qui a metà dell’anno prossimo sembra tutto abbastanza tranquillizzante. Trump è riuscito a fare coincidere, di certo non casualmente, la conclusione del miniaccordo con la Cina e un nuovo massimo di borsa con l’impeachment, che per i mercati è e continuerà a essere un non evento. Più la Borsa sale e l’economia tiene, più Trump si rafforza. Più Trump si rafforza più la borsa ha ragione di non temere troppo le presidenziali e la fine del 2020. Naturalmente tutto è reversibile, ma finora gli errori tattici più gravi li hanno fatti i suoi avversari, in particolare la Warren.

Certo, i mercati appaiono sempre più artificiali, ingegnerizzati e plastificati. Tutto è costruito a tavolino. Nel breve e superficialmente questo ci dà sicurezza, nel lungo rischia di rendere l’insieme rigido e, alla fine, incontrollabile. È come gli argini di un fiume. Finché tengono tutto sembra solido e tranquillo. Quando si rompono, l’alluvione è più devastante, perché con la falsa sicurezza fornita dagli argini si è costruito lungo il fiume.

Trump e Mnuchin cercheranno, con l’aiuto di una Fed addomesticata, di tenere alti i mercati e di farli salire ancora. Fosse per Trump, anche una bolla violenta andrebbe bene. Mnuchin cercherà però di calmarlo, come fa spesso con successo, e di proporre un rialzo lento, moderato e graduale.

I tassi a breve rimarranno invariati, i tassi a lungo saliranno in modo poco percettibile. Il dollaro si indebolirà su euro, ma di poco. Dollaro e renminbi rimarranno agganciati, perché questo, accanto agli acquisti cinesi di soia americana, è uno dei due punti reali del miniaccordo. Mnuchin si è speso molto per ottenere un impegno cinese a non svalutare. Per chi ragiona in dollari o ha dollari in portafoglio, può essere interessante passare a governativi cinesi in renminbi (titoli di stato, rigorosamente, non aziende pubbliche) che rendono, sul dieci anni, il 3.25 per cento.

E allora auguri a tutti noi e anche a Kairos. Anche lei compie vent’anni.

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