Perché i mercati si sentono più forti di prima

Agli inizi del Trecento il mondo stava avviandosi verso uno dei suoi cicli di globalizzazione. La via della seta era già molto battuta, i portoghesi e i catalani avevano iniziato a stabilire basi sulle coste occidentali dell’Africa atlantica, gli arabi commerciavano con l’Africa orientale mentre il mare del Nord e l’Atlantico settentrionale erano sede di traffici intensi. In Groenlandia i vichinghi, che si erano insediati lungo le coste meridionali da due secoli, erano stati raggiunti dagli Inuit, stabilendo un nesso tra europei e nativi americani. Certo, i viaggi diretti tra Europa e Cina erano rari, tanto che Marco Polo aveva potuto aggiungere particolari fantastici alla sua narrazione senza troppa paura di essere smentito, ma il commercio era organizzato per segmenti, dalla Cina alla Persia, dalla Persia al mar Nero e da qui in tutta Europa. E funzionava.

Anche la peste, quindi, viaggiò per tappe e per passare dalla Cina alla Scozia ci mise cinque anni. Fu però metodica nel dimezzare le popolazioni tra cui transitava, tanto che occorsero poi due secoli per riempire il vuoto demografico che aveva creato. L’impatto fu tale da provocare l’abbandono di ampie terre coltivate e una riduzione delle diseguaglianze, per effetto della caduta dei prezzi della terra e dell’aumento del costo del lavoro. La riforestazione che ne seguì abbassò la temperatura in tutta Europa, causò il ritorno dei ghiacci in Groenlandia e l’abbandono europeo dell’isola e provocò, secondo alcuni studi, la piccola glaciazione dei due secoli successivi, resaci familiare dai quadri borgognoni e fiamminghi del Quattro e Cinquecento che ritraggono nobili in pelliccia e pattinatori sul ghiaccio. Quanto alla ricerca delle cause dell’epidemia, la scienza del Trecento non andò oltre l’ipotesi dell’astronomo belga Simon de Couvin, che attribuì la peste alla congiunzione avversa tra Giove e Saturno.

Oggi tutto è più veloce

Dalla Cina partono ogni giorno (partivano) centinaia di aerei per tutti gli angoli del pianeta e i virus viaggiano (viaggiavano) a 800 chilometri all’ora, anche in classe business. I tempi di reazione delle autorità politiche e sanitarie sono più veloci, anche se non sono certo ottimali (un mese, in Cina, per passare dal minimizzare al reagire, un sesto del tempo che occorse durante la peste manzoniana per passare dagli allarmi di Settala e Tadino alla reazione del governatore Spinola). Diagnosi e vaccini arrivano sempre più veloci.

Dove i progressi sono però più rilevanti è nella reazione dei mercati finanziari, che dal ribasso del 15 per cento ai tempi della Sars (dovuto anche all’attesa della guerra in Iraq) sono passati al 3 per cento di oggi e dai quattro mesi di discesa di allora (ai quali aggiungerne due per il recupero) sono passati questa volta a una discesa-risalita che ha richiesto solo 13 giorni.

Oggi il mercato si sente perfettamente guarito e in grande forma per tre ragioni

La prima è che si è formata la convinzione che, un minuto prima della percezione mediatica dell’epidemia, il mondo era sul punto di spiccare il volo verso una riaccelerazione globale che ora è stata semplicemente riposta nel congelatore e che riapparirà tra noi in tempi brevi. I famosi germogli, di cui si parlava da novembre, stavano effettivamente e finalmente sbocciando verso la fine di gennaio. Niente di particolarmente rilevante (e nemmeno omogeneamente distribuito, come mostra la caduta degli ordini industriali in Germania), ma certamente degno di nota.

La seconda è che si può ragionevolmente pensare che la risposta monetaria (e, nel caso, fiscale) all’epidemia sarà per il mercato azionario più importante del danno che gli potrà derivare da una contrazione di vendite e margini ancora peraltro da determinare. La Cina ha infatti risposto molto aggressivamente, da una parte con stimoli monetari e dall’altra preparandosi a ripristinare (a epidemia conclusa) quel tipo di pacchetti fiscali cui ci aveva abituato nei dieci anni passati e che aveva deciso di mettere in soffitta. Quanto a Europa e America, non ci sono ancora reazioni di policy ufficiali, ma è legittimo supporre che il non-Qe americano in corso verrà prolungato, forse fino all’estate.

In pratica i mercati scontano con piacere una asimmetria tra un pericolo sul terreno che dovrebbe risolversi in tempi brevi e una risposta di policy che, per prudenza e precauzione, darà un tono ancora più espansivo per un periodo ancora più lungo di quello che si attendeva.

La terza ragione che dà ai mercati un motivo di guardare con impazienza a nuovi massimi è la riclassificazione del maggiore rischio politico del 2020, le elezioni americane. Un Trump passato indenne attraverso il confronto con l’Iran e l’impeachment (e rafforzato dalla conclusione della guerra commerciale e dalla borsa) ha più probabilità di essere rieletto, tanto più in un momento, come questo, in cui i suoi oppositori democratici appaiono deboli, divisi e, se radicali, poco interessanti per l’elettorato centrista. Trump e la borsa, d’altra parte, si rafforzano a vicenda (così come potrebbero indebolirsi a vicenda nel corso dei prossimi mesi se le circostanze dovessero cambiare).

Completato il recupero di quanto perduto per l’epidemia, i mercati potrebbero fermarsi, nelle prossime settimane, in attesa che passi il flusso ritardato di dati provenienti dalla Cina. Questi dati saranno considerati anomali e non sarà dato loro peso.

Una sola cosa, a questo punto, hanno da temere i mercati. Un secondo ciclo pandemico, questa volta in Occidente, li coglierebbe impreparati. Per ora, fortunatamente, non ci sono segnali rilevanti in questa direzione, ma il rischio di coda esiste e dovrebbe essere tenuto in conto da chi usa la leva. Gli altri possono concentrarsi sullo scenario di base e rimanere investiti e costruttivi.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners

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