Storicamente c’è stata spesso un’associazione tra guerre, carestie ed epidemie. L’armata di Carlo VIII porta in Italia la sifilide e poi la diffonde in tutta Europa. Nel 1630 i Lanzichenecchi portano la peste in un’Italia già stremata dalla carestia. In tempi più vicini il tifo si diffonde nei campi di prigionia delle due guerre mondiali. Le guerre agiscono anche indirettamente, provocando carestie che indeboliscono i corpi e li rendono più facile preda delle epidemie.
Quando si presentano da sole, tuttavia, guerra ed epidemia sono molto diverse nei loro effetti. Anche se in questo periodo sentiamo spesso la guerra come metafora della pandemia in corso (siamo in una economia di guerra, in uno stato d’eccezione politico come in guerra, il coprifuoco come in guerra, la mobilitazione generale ecc.), sul piano economico guerra ed epidemia hanno profili profondamente diversi.
La guerra è intrinsecamente inflazionistica, perché la domanda cresce più velocemente dell’offerta. In guerra c’è improvvisamente bisogno di tutto, armi, mezzi di trasporto, ospedali. L’offerta cresce molto, perché entrano nella forza lavoro donne, anziani, prigionieri, ma non riesce a tenere dietro alla domanda. Se i prezzi vengono calmierati, si crea scarsità di beni e mercato nero. In ogni caso i prezzi salgono.
L’epidemia è intrinsecamente deflazionistica, perché la domanda diminuisce più velocemente dell’offerta, tranne che per i beni di prima necessità. Lo spopolamento provocato dalla Peste Nera del Trecento provoca la discesa duratura del prezzo dei terreni, compensata solo in parte dall’aumento del costo della manodopera divenuta scarsa.
Tornando alla guerra, il suo effetto sulla produzione è altamente positivo, anche se tende ad appiattirsi nel corso del conflitto per poi contrarsi verso la fine, quando i fattori di produzione (uomini e fabbriche) risentono delle perdite e delle distruzioni. C’è oggi consenso sul fatto che l’uscita dalla depressione degli anni Trenta fu certamente facilitata dalle misure di reflazione della seconda parte del decennio (svalutazione contro oro, New Deal) ma fu resa irreversibile solo dal riarmo e dalle spese di guerra del decennio successivo.
L’epidemia, ovviamente, deprime la produzione. La cosiddetta recessione di Eisenhower del 1958, che provocò la perdita di cinque milioni di posti di lavoro e una discesa del Pil che a un certo punto sfiorò il 10 per cento, fu dovuta a fattori endogeni (i rialzi dei tassi dei due anni precedenti e una crisi del settore automobilistico) ma fu resa più acuta dall’epidemia di asiatica che provocò 70mila morti solo negli Stati Uniti e costrinse a letto milioni di persone. Nel caso della pandemia in corso, le conseguenze economiche sono rese ancora più pesanti dalla decisione senza precedenti di sospendere la produzione in quasi metà dei settori su scala praticamente globale.
Dove le cose si fanno più complesse è nella risposta monetaria e fiscale a guerre ed epidemie. Per finanziare le guerre, storicamente, i monarchi tassavano i nobili o contraevano debiti che poi ripudiavano o monetizzavano. Gli ultimi esempi di ricorso alle tasse risalgono alla patrimoniale di guerra del Reich nel 1914 e alle aliquote marginali elevate in America e in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale. Molto più frequente, soprattutto a guerra finita, lo smaltimento del debito attraverso l’inflazione o, una specialità britannica, la sostituzione volontaria del debito pregresso con nuovo debito irredimibile. Sul piano economico, la ricostruzione europea dopo il 1945 è avvenuta in un contesto di bassa tassazione, deregulation, intervento pubblico e apertura dei mercati internazionali.
Le pandemie non sono mai state oggetto di una risposta di policy specifica. Questa è dunque la prima volta. Ci muoviamo in acque inesplorate e anche l’analogia con l’economia di guerra, come abbiamo visto, non ci è particolarmente utile. Fortunatamente il dibattito iniziale sulla natura inflazionistica (sostenuta da Rogoff) o deflazionistica della crisi è stato rapidamente superato con il netto prevalere della seconda lettura non solo nel dibattito accademico ma, quel che più conta, nella linea d’azione di governi e banche centrali.
Il buco nero della deflazione, d’altra parte, non è un fenomeno circoscritto nel tempo della quarantena, ma è destinato a protrarsi nei prossimi mesi e anni. Le guerre, tipicamente, si concludono in un tempo definito con un armistizio e un trattato di pace. C’è un prima e un dopo e nel dopo il sollievo psicologico aiuta consumi e investimenti a ripartire, per quanto possibile. L’epidemia non ha una fine netta, ma sfumata. La Cina di oggi si è ripresa all’85-90 per cento e continua a recuperare, ma i consumi privati sono deboli e ancora limitati allo stretto necessario. Le persone si chiudono in casa dopo il lavoro e pochi si avventurano a comprare un’auto o una casa, spese importanti che richiedono fiducia nel futuro. Da qui la necessità di quegli investimenti pubblici che stanno per ripartire. Spesso criticati in passato come insostenibili, saranno proprio loro il sostegno dell’economia cinese nella prossima fase.
Da quanto abbiamo visto emerge la non pericolosità, in termini di inflazione, della pioggia di trilioni che sta per essere versata sulle nostre economie. Vedremo presto che sarà anzi necessario fare di più sul piano fiscale, soprattutto in Europa. Qui la Germania ha messo a posto sé stessa bene e aggressivamente, ma forse proprio per questo ha ora poco incentivo a varare anche per l’Europa un programma di qualche respiro. Il compromesso che si profila è un collage di provvedimenti presi con il braccio corto e con l’idea centrale di evitare qualsiasi trasferimento di ricchezza da nord a sud. Si pensi per fare un esempio al Sure, il programma europeo di sussidio ai disoccupati. Sono anni che se ne discute come primo possibile nucleo di un’unione dei trasferimenti, ma ecco che, nel momento del bisogno, si torna indietro e lo si trasforma, nella versione che sta circolando, in un ennesimo credito dal centro agli stati membri, che un giorno dovranno restituire tutto fino all’ultimo centesimo. Non è certo così che funzionano i sussidi di disoccupazione federali in America, erogati a fondo perduto e distribuiti in questi giorni ai sei milioni di nuovi disoccupati creati nelle ultime due settimane dalla crisi.
Venendo ai mercati, stabilizzati i corporate bond di qualità, ora sono le borse che cercano un equilibrio. Dopo il grande panico dei venditori e il successivo piccolo panico dei compratori i mercati si apprestavano a riprendere un lento scivolamento verso i minimi nel corso di questo difficilissimo aprile quando Trump ha deciso di provare a prendere in mano la questione del petrolio, lasciata finora alla forse finta guerra tra Russia e Arabia Saudita che è certamente anche una guerra vera ai produttori americani di shale oil. In un mercato teso e preoccupato, fare tornare il greggio a livelli che non implichino l’uscita di scena di molti produttori americani (spesso altamente indebitati) avrebbe un grosso effetto psicologico positivo.
Per il momento il massimo che possiamo sperare resta in ogni caso il mantenimento del trading range delle ultime settimane con una graduale riduzione della volatilità. I tempi della crisi sono i tempi americani. La riduzione dei contagi in Italia, se confermata, sarebbe un fattore importante ma non decisivo. Perché ci sia l’inizio di una svolta occorrerà ancora qualche settimana.
A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos