Eni, dietro la partita ugandese l’ombra di Exxon

La battaglia vinta ieri dall’Eni in Uganda è l’ultima mossa di una ben più vasta partita che le big del petrolio stanno conducendo per contendersi quote di mercato. Il continente nero è al centro di questa partita, dove secondo alcuni rumors rientrerebbero anche le note lettere al vetriolo pubblicate recentemente dal fondo Kinght Vinke all’amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni.

Ma di cosa stiamo parlando? E’ di ieri la decisione del governo dell’Uganda di schierarsi a favore del cane a sei zampe nella corsa verso i giacimenti del gruppo Heritage, su cui Tollow Oil (socia di Heritage) aveva esercitato il diritto di prelazione. Come ha spiegato ieri il ministro dell’energia Hillary Onek, nei confronti di Tullow “il governo non ha ancora opposto il veto. Tuttavia lo farà, se dovesse sorgere la necessità”. A spingere Kampala in tal senso è il timore che si venga a creare un monopolio nel Paese: Tullow detiene infatti il 100% del blocco nell’area del lago Abert  e più del 50% dei blocchi 1 e 3A, oggetto del contendere. A novembre Eni aveva siglato con Heritage un’intesa per acquisire il restante 50% prima che Tullow esercitasse la prelazione. Quella del gruppo olandese era stata in un certo senso una mossa a sorpresa, poiché è noto che da solo non sarebbe stato in grado di soddisfare le richieste del governo ugandese, mentre l’Eni da parte sua aveva garantito di partecipare allo sviluppo infrastrutturale del Paese. Di qui il sospetto, circolato in ambienti diplomatici e riportato da Milano Finanza, che dietro la mossa di Tullow ci fosse il colosso americano Exxon, interessato a fare le scarpe all’operatore italiano in Africa (dopo avergli dato del filo da trocere in Kazakhstan). A ottobre Tullow aveva infatti dichiarato di voler costituire una partnership con un’altra compagnia per lo sviluppo dei giacimenti in Uganda, mentre risalgono alla scorsa settimana alcune indiscrezioni, raccolte presso fonti vicine alla società, secondo cui la short-list di favoriti si sarebbe ridotta alla francese Total e, guarda a caso, a Exxon.

Ci sono poi le lettere di Knight Vinke, l’ultima “gatta da pelare” di Paolo Scaroni. Il fondo, che anni fa era riuscito a cambiare la governance in Shell con in mano appena lo 0,3% del capitale, sostiene che il titolo sia sottovalutato rispetto ai competitor a causa della struttura conglomerata dell’Eni e suggerisce, per recuperare valore, la scissione in due compagnie, la GasCo (in cui confluirebbero la Gas & Power e Snam Rete Gas) e la OilCo. Sulla bontà di questi consigli c’è chi nutre qualche dubbio, soprattutto in vista dell’accordo, atteso a giorni, tra l’Eni e l’Antitrust europeo sulla questione di Snam Rete Gas, la cui vendita potrebbe essere evitata dismettendo quote detenute in alcuni gasdotti esteri (l’austriaco Tag e il tedesco-svizzero Tenp-Transitgas).

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