I tassi negativi, opportunità e rischi

In aprile l’inflazione americana, misurata con l’indice dei prezzi al consumo al netto dell’energia e degli alimentari, è scesa dello 0.4 per cento. Nell’Eurozona, nel secondo e terzo trimestre, l’inflazione sarà vicina a zero rispetto a un anno fa. Sia in America sia in Europa l’obiettivo ufficiale è il 2 per cento (qualcosa di più del 2, nel dubbio, negli Stati Uniti e qualcosa di meno in Europa).

Se l’inflazione continuerà a scendere, come è possibile nei prossimi 6-12 mesi, e se i tassi ufficiali rimarranno stabili a zero in America e a -0.50 in eurozona, i tassi reali saliranno.

Rivivremmo, in questo caso, l’esperienza della Grande Depressione degli anni Trenta, quando il mondo precipitò nella deflazione e i tassi rimasero bloccati sopra zero. Questa volta, verosimilmente, la deflazione sarà superficiale, ma il paradosso di tassi reali in crescita proprio quando il mondo avrà bisogno di tutt’altro sarà evidente e non potrà lasciare indifferenti banche centrali e mercati.

I mercati, a dire il vero, hanno già provato a scontare tassi negativi in America entro la fine del 2020, stimolati anche da un recente contributo di Kenneth Rogoff che invoca Fed Funds sotto zero. Non in via ipotetica, ma da subito, non moderatamente negativi, ma profondamente negativi.

Rogoff propone tassi negativi ufficiali del 3 per cento e argomenta con il fatto che questo porterebbe i tassi effettivamente praticati ai debitori corporate dalle banche e dal mercato obbligazionario ad azzerarsi, rendendo possibile la sopravvivenza di imprese che, se dovessero continuare a pagare un tasso positivo, diverrebbero insolventi e uscirebbero di scena.

Un secondo obiettivo sarebbe quello di ostacolare la tendenza ad accumulare liquidità da parte di investitori privati e istituzionali. Inoltre, per evitare che, per aggirare i tassi negativi, si riempiano di banconote le cassette di sicurezza, Rogoff propone l’abolizione dei biglietti di grosso taglio.

Se il 3 per cento negativo può sembrare aggressivo, la Taylor rule va oltre. Proposta nel 1992 da John Taylor di Stanford, la regola incontrò subito grande favore per la sua semplicità ed efficacia. Partendo dall’inflazione effettiva e desiderata da una parte e dalla disoccupazione effettiva rispetto al massimo impiego potenziale non inflazionistico dall’altra, l’equazione produceva il tasso d’interesse ottimale. Molto seguita anche dalla Fed fino alla Grande Recessione, la regola rivelò i suoi limiti in un mondo dove la curva di Phillips aveva cessato di funzionare e perse centralità. In ogni caso, per chi la ricorda e ne ha nostalgia, la regola indicherebbe per oggi, per chi l’ha ricalcolata, tassi tra -8 e -16.

Dopo il 2008 i tassi negativi hanno avuto alterne fortune nel dibattito accademico e tra i policy maker. Per alcuni anni hanno figurato tra le misure monetarie da tenere pronte nel caso di una nuova recessione, insieme o in alternativa al Quantitave easing. Si è anche calcolata l’equivalenza tra tassi e Qe e si è visto che un trilione di Qe, tanto in Europa quanto in America, ha sull’economia effetti grosso modo simili a quelli di un taglio dei tassi di un punto percentuale.

Nella seconda parte del decennio scorso i tassi negativi hanno perso popolarità in Europa, dove erano e sono comunque praticati, mentre la Fed, constatata l’opposizione delle banche e del Congresso, ha preferito concentrarsi su varie forme di Qe. Con la crisi Covid19, per due lunghi mesi nessuno ha ipotizzato o invocato i tassi negativi come possibile misura anticiclica e ci si è invece concentrati sul Qe classico e sulla politica fiscale.

Giunti a questo punto, tuttavia, con il prolungarsi delle misure di confinamento, con l’allargarsi dell’epidemia al mondo intero e con il rischio imminente, nei Paesi che riaprono, di una ripresa dei contagi, di un ritorno al lockdown e di un’ondata di fallimenti, i tassi negativi appaiono sotto una nuova luce. A questa riconsiderazione contribuiscono la fine del recupero azionario e il deteriorarsi del quadro macro oltre le previsioni.

Il fatto che le banche centrali abbiano finora dichiarato di non pensare per il momento a tassi sotto zero vuol dire solo che sperano che non occorrano. Chi investe, tuttavia, farà bene a considerarli come assolutamente possibili. Dopo la pioggia di trilioni fiscali e di Qe delle scorse settimane, c’è infatti una certa assuefazione del mercato da una parte e una certa stanchezza tra i policy maker dall’altra. In America non si escludono altre misure, ma il clima bipartisan in Congresso si sta deteriorando, mentre la Fed ha paura di apparire troppo generosa nei confronti dei mercati, della finanza e dei ricchi. Quanto all’Europa, il modesto Recovery Fund, partito da un trilione e mezzo, sembra essere sceso a un trilione, mentre sulla Bce alita sul collo la Corte costituzionale tedesca.

I tassi negativi, a differenza del Qe, potrebbero essere presentati come penalizzanti per le banche, per i rentier e per i ricchi in generale, mentre permetterebbero a chi ha un mutuo di rinegoziarlo a condizioni vantaggiose. Sarebbero una patrimoniale per chi sta ancora bene e una benedizione per chi è indebitato. Sarebbero politicamente spendibili.

In realtà le cose sarebbero più complicate. Se i tassi sempre più bassi di questi ultimi quarant’anni hanno smesso a un certo punto di produrre effetti economici positivi è perché sono stati visti come permanenti e perché, paradossalmente, non erano abbastanza bassi. Si è così notato che in molti paesi con i tassi sotto zero le famiglie, invece di spendere di più, si mettono a risparmiare mentre le imprese, vedendo tassi a zero per tutto l’orizzonte prevedibile, smettono di avere fretta di cogliere l’occasione e rinviano gli investimenti.

Il caso di tassi profondamente negativi sarebbe però una scossa tale da indurre tutti a riconsiderare il loro portafoglio e provocherebbe migrazioni a catena dalla liquidità ai titoli obbligazionari di qualità e poi da questi agli alti rendimenti e all’azionario. E non ci sarebbero solo guadagni in conto capitale ma, ancora di più, un minor numero di default e ristrutturazioni. Per i patrimoni normalmente investiti, senza nemmeno bisogno di prendere più rischio, si tratterebbe insomma di un’opportunità.

E per l’economia reale?

Qui la differenza la farebbe il presentare come limitati nel tempo i tassi profondamente negativi. A quel punto le imprese correrebbero a sistemare il loro passivo, allungandone la scadenza, e potrebbero emettere nuove azioni su livelli non sacrificati. Chi vuole comprare una casa correrebbe in banca per accendere un mutuo su cui incassare, non pagare, gli interessi (come succede da tempo in Danimarca) e le aziende dei settori meno colpiti dalla crisi tornerebbero a investire.

Quanto alle banche, per loro non è importante il livello assoluto dei tassi ma la pendenza della curva dei rendimenti. Con i tassi negativi potrebbero indebitarsi sotto zero e prestare poco sopra zero, guadagnandoci da una parte e avendo dall’altra, anche loro, una speranza maggiore di venire ripagate.

Un ultimo elemento positivo è che i tassi negativi profondi, che partirebbero come tutte le novità dall’America, ridimensionerebbero un dollaro che la crisi sta rendendo troppo forte, darebbero sollievo al preoccupante numero di paesi emergenti in difficoltà e indurrebbero l’Europa a reflazionare a sua volta.

Al momento non sappiamo se i tassi scenderanno davvero in profondità e ci auguriamo invece, prima di tutto, che la riapertura delle economie possa continuare senza provocare conseguenze rilevanti sui contagi. Sapere però che nel caso peggiore esistono ancora armi potenti per prevenire o contenere una depressione e che le banche centrali, anche se ne negano l’utilizzo nell’immediato, non ne escludono la possibilità nel futuro dovrebbe essere un importante elemento di sostegno per tutti gli asset finanziari. La correzione azionaria potrà ancora proseguire, ma troverà un supporto prima e più in alto di quello che si sarebbe potuto pensare.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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