Mercati azionari, Schroders: i tre settori in cui ricercare opportunità

A cura di Kristjan Mee, Strategist, Research and Analytics di Schroders

Come conseguenza del brusco rimbalzo da fine marzo in poi, le valutazioni azionarie sono diventate molto più costose, avvicinandosi in alcuni casi ai massimi storici. Fortunatamente, ci sono ancora diverse opzioni a disposizione degli investitori alla ricerca di titoli relativamente convenienti. Abbiamo individuato le tre aree del mercato che al momento presentano prezzi vantaggiosi e sentiment particolarmente negativo, cercando di capire i motivi per cui questi titoli hanno sottoperformato e le eventuali prospettive positive.

1. Il settore bancario europeo

Nei mercati sviluppati i titoli azionari meno favoriti sono probabilmente quelli del settore bancario europeo e gli investitori hanno fatto bene a evitarli. Da dicembre 2007 le banche incluse nell’indice Stoxx Europe 600 hanno sottoperformato del 120% su base total return.

È indubbio che il coronavirus avrà un effetto disruptive su questo settore. I dati sugli utili del primo trimestre mostrano che le banche hanno aumentato le riserve in vista di potenziali perdite future sui prestiti e hanno registrato un calo nei capitali azionari core. Il lato positivo è che il gap con le valutazioni nel mercato più in generale si è ampliato, arrivando a livelli estremi. Al momento il rapporto forward price-to-earnings delle banche (9,3x), è del 40% inferiore rispetto al mercato (15,5x).

Si vede la luce in fondo al tunnel? Il sistema bancario europeo è molto più sicuro oggi rispetto a prima della crisi finanziaria globale. L’adozione di regole più stringenti ha portato a un aumento significativo dei buffer di capitale delle banche. Nonostante ciò, persistono due problemi strutturali: un’ampia mole di non-performing loan nei Paesi del sud Europa e la bassa profittabilità. Quest’ultimo punto è evidenziato dai livelli relativamente bassi del reddito netto da interessi e della redditività del capitale proprio (Roe) delle banche dell’area dell’euro, soprattutto rispetto agli Stati Uniti.

Nonostante le incertezze, ci sono alcuni risvolti positivi emersi durante la crisi: i governi europei hanno adottato schemi di garanzie sui prestiti, la Commissione Europea ha proposto un alleggerimento temporaneo dei requisiti di capitale e la Bce ha annunciato che fornirà fino all’1% sui prestiti alle banche se concederanno un numero sufficiente di nuovi prestiti.

Il risultato di queste misure di supporto è che le banche hanno mantenuto i rubinetti aperti, anche se in tempi incerti avrebbero normalmente tagliato l’erogazione di credito. Solo a marzo, i nuovi prestiti alle aziende nell’Area euro sono stati pari a 115 miliardi di dollari, un aumento senza precedenti. Sebbene in gran parte si tratti di prestiti a breve scadenza, anche quelli a 5 anni o più hanno visto una crescita record. Se le banche saranno in grado di mantenere la qualità dei prestiti invariata, erogando denaro invece di pagare interessi alla Bce per i depositi, gli effetti sulla profittabilità dovrebbero essere positivi.

2. Il settore energetico Usa

Tra le principali vittime del coronavirus sui mercati c’è il settore energetico statunitense. Le diffuse misure di lockdown hanno portato a un crollo del 25% ad aprile della domanda globale di petrolio. Dopo l’ultimo collasso, le azioni del settore rappresentano soltanto il 3% dell’Indice S&P 500, rispetto al 16% del 2008.

A causa dell’elevata correlazione tra gli utili del settore energetico e il prezzo del petrolio, non stupisce che le aspettative sugli utili nei prossimi 12 mesi siano crollate attorno allo zero. Tuttavia, con l’intera industria che dovrebbe vedere ben pochi profitti il prossimo anno, le metriche basate sugli utili non sono molto adatte per valutare l’attrattività delle compagnie energetiche. Il quesito è invece se domanda e offerta arriveranno a un equilibrio e quali società sopravviveranno a questo crollo storico.

La buona notizia è che i tagli all’offerta stanno finalmente aumentando. L’Opec e i suoi principali partner hanno concordato di tagliare la produzione per quasi 10 milioni di barili al giorno a partire da maggio. Inoltre, il numero di impianti di estrazione negli Usa è sceso dai 700 di marzo a 237, aprendo la strada a un brusco calo nella produzione. Molti di questi tagli potrebbero essere permanenti, dato che la produzione non tornerà a crescere anche se i prezzi dovessero tornare sui livelli pre-crisi. Inoltre, con la fine dei lockdown, la domanda sta iniziando lentamente a crescere, con un rimbalzo nel prezzo del petrolio.

I default nel settore sono in crescita, dato che i finanziamenti sono più difficili da ottenere. Il lato positivo è che le società che sopravviveranno ne godranno i benefici quando la situazione si normalizzerà. Ecco perché è fondamentale essere selettivi e favorire le società con bilanci solidi, costi flessibili e management disciplinati.

3. L’azionario brasiliano in dollari

L’azionario dei mercati emergenti ha sottoperformato rispetto ai mercati sviluppati nel corso della crisi. In parte ciò è dovuto alle minori risorse a disposizione per combattere la pandemia nei Paesi in via di sviluppo.

Uno dei Paesi più colpiti è stato il Brasile, con l’Indice Msci Brazil che ha perso il 49,3% in dollari quest’anno (al 20 maggio 2020), rendendo il Brasile il Paese con le peggiori performance all’interno dell’Indice Msci EM. È importante notare che gran parte delle perdite riguarda il lato valutario: in valuta locale infatti l’indice ha perso il 28,4% nello stesso periodo.

Guardando alle valutazioni si nota che l’azionario brasiliano non è così conveniente come ci si potrebbe aspettare, con indicatori forward price-to-earnings in linea con quelli l’indice dei mercati emergenti. Tuttavia, c’è un’ampia dispersione nelle valutazioni dei singoli titoli, dato che sono inclusi settori della “new economy” come IT ed e-commerce che non si sono svalutati significativamente.

Di conseguenza, al momento l’area di maggiore valore in Brasile è la valuta. Anche se aggiustato per l’inflazione, il real brasiliano si è deprezzato di oltre il 60% dal 2011, tornando sui livelli dei primi anni 2000.

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