Vendetta o necessità di controllo?

di Giuseppe G. Santorsola

Il Senato italiano ha approvato un emendamento al DL comunitario 2009 con il quale lo stipendio massimo degli amministratori e dirigenti bancari è stato fissato in armonia con la massima remunerazione dei parlamentari (248.000 euro lordi, peraltro congiunti a numerosi bonus e benefits). Con ogni probabilità tale soluzione verrà modificata dall’esame del decreto presso la Camera dei deputati mediante la ricomposizione di una formazione dei parlamentari allargata agli assenti in questa occasione. Stante questa quasi certa possibilità, l’occasione è utile per discutere in merito all’ammontare equo e “fair” delle remunerazioni in oggetto, i criteri, i metodi e i poteri per decidere in materia. L’accadimento italiano si congiunge peraltro con il pronunciamento del Presidente americano in materia e con altre opinioni in merito espresse in Francia e Germania, per altro in contesti in cui si sono rilevati imponenti interventi pubblici (restituiti e non) a favore di banche altrimenti in difficoltà. Le istanze proposte manifestano un sentiment negativo nei confronti del mondo bancario, interpretato dal Parlamento che deve essere valutato sotto il profilo politico (con valutazioni di compatibilità con la situazione del ciclo economico), il profilo di opportunità (con il pericolo di una fuga dei migliori verso società estere), il profilo della legittimità (con difformi opinioni in materia di costituzionalità) e il profilo della applicabilità (nei confronti di aziende private governate da soci sistematicamente diversi da quello pubblico). Resta ferma la possibilità assoluta che la norma non entri mai in vigore, ma ciò non significa che il tema non meriti attenzione. La misura non sembra oggettivamente regolabile tramite la via legislativa in quanto una sua determinazione in un contratto privato non può essere modificabile solo attraverso una nuova legge. Molti direttori centrali godono notoriamente di remunerazioni superiori a quelle che così sarebbero assegnabili ai loro superiori al vertice delle stesse aziende, il che è incompatibile. Il parlamentare inoltre gode di una certezza della propria posizione priva dell’ipotesi di un licenziamento anche ad nutum, come è invece possibile e applicato per un dirigente bancario. Per contro, bisogna considerare che molti di costoro vengono remunerati secondo i loro contratti personali anche quando i risultati aziendali sono negativi. Per gli amministratori delegati il livello della remunerazione è fissato da scelte dell’assemblea dei soci e cioè dell’unico organo volitivo esistente in merito. Numerosi dirigenti principali sono remunerati a livello di capogruppo ma svolgono la loro prestazione presso numerose società del gruppo (ipotizzandosi così la soluzione che il loro contratto possa essere in futuro spalmato su più fonti e soggetti giuridici anche rispettando il singolo tetto). L’impianto della proposta approvata ha un forte contenuto politico e uno scarso valore economico, dimostrando un conflitto tra la soluzione volta ad acquisire consenso popolare (o populistico) e l’intrusione della stessa politica in un tema invero privatistico. Ne emerge la conferma della “antipatia” crescente nei confronti del settore bancario ingordo verso il guadagno e colpevole secondo la comune opinione degli effetti sull’economia reale del loro recente operato. È peraltro discutibile nel caso italiano che ciò sia dimostrabile per “tabulas” alla luce della confortante condizione patrimoniale e di rischio delle banche italiane. Bisogna peraltro considerare che negli ultimi anni si è assistito ad una inversione dei rapporti: in passato i banchieri rispondevano ai politici; poi, spesso, i politici sono ricorsi ai banchieri per risolvere alcune situazioni necessarie. Ciò lascia trasparire l’ipotesi di una vendetta o di una ritorsione.
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