Inflazione e cambi di mentalità

Jeff Bezos, CEO e fondatore di Amazon.com, ha dichiarato: “Ci sono due tipi di aziende: quelle che lavorano per cercare di aumentare i loro prezzi e quelle che lavorano per cercare di abbassarli. Noi siamo del secondo tipo”.

L’inflazione è sempre un tema di attualità. Anche nell’era dei social network, sarebbe sempre un trending topic, con un hashtag costante. Il suo ruolo nella storia e nella politica, oltre al suo impatto nella vita quotidiana di ciascuno di noi, la rende, se non l’argomento esplicito, almeno un convitato di pietra in qualsiasi conversazione che riguardi l’economia e i mercati finanziari.

Chi scrive, e probabilmente molti di coloro che leggono, è cresciuto e ha studiato Economia in un mondo in cui, se l’inflazione rappresentava un problema, lo era perché troppo alta. Negli ultimi anni, invece, il contributo congiunto, fra le altre cose, di una globalizzazione poco regolamentata e della Grande Crisi Finanziaria e della Grande Recessione che ne è seguita, oltre al ruolo decisivo della flebile dinamica di crescita degli aggregati monetari, come evidenziato nelle analisi del nostro capo economista John Greenwood, ha contribuito a mantenere l’inflazione bassa. Ciò è stato utile perché ha lasciato le mani molto libere alle Banche Centrali.

Per quanto mi riguarda, un indicatore di solito attendibile di come potrebbero muoversi i prezzi al consumo è la dinamica dei prezzi alla produzione. Negli ultimi tempi, non mi pare che abbia evidenziato un rischio di rialzo dell’inflazione, anche grazie alla discesa del prezzo del petrolio e di molte materie prime.

Andamento degli indici dei prezzi alla produzione (PPI) in USA, Cina, UK, Eurozona

Fonte: Bloomberg, 30 aprile 2020

Detto ciò, visto che l’inflazione è un fenomeno che storicamente ha avuto implicazioni importanti non solo sulla vita economica, ma anche politica e sociale in molti Paesi, ci sono alcuni aspetti meno tecnici che vorrei sottolineare, legati alla pandemia di Covid-19, che cambiano almeno in parte il quadro rispetto alla situazione precedente.

Il primo riguarda l’impatto che la pandemia ha avuto su alcune catene produttive. La crisi del Covid-19 è stata una crisi “antimeritocratica”, se così si può dire. Le aziende più efficienti, con catene produttive e del valore globali, in grado di ottimizzare i costi e ridurre al minimo le scorte di magazzino grazie a sofisticati sistemi just in time, sono state quelle che si sono rivelate, per definizione, più vulnerabili rispetto al lockdown prodotto dal virus. Inoltre è stata una crisi che ha colpito senza alcun tipo di gerarchia fra beni necessari e voluttuari. La distribuzione ha operato delle scelte in questo senso, cercando di dare la priorità alle consegne di beni ritenuti essenziali, ma dal punto di vista della produzione, la pandemia ha costretto industrie fondamentali come l’alimentare a ridurre la propria produzione anche significativamente in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti. Già questi due effetti combinati potrebbero contribuire ad alimentare l’inflazione. Le aziende probabilmente potrebbero riprogettare le proprie strutture produttive, creare della capacità in eccesso, di riserva, magari locale in vari Paesi, per evitare il rischio che un blocco dei trasporti internazionali costringa a un’interruzione globale della produzione. Ciò imporrebbe dei costi e genererebbe inefficienze che le aziende potrebbero cercare di recuperare applicando aumenti dei prezzi di vendita. I consumatori, dal canto loro, potrebbero preoccuparsi di non riuscire a procurarsi i beni – anche di prima necessità, come il cibo – di cui hanno bisogno.

E proprio questo secondo aspetto, a mio parere, merita di essere evidenziato. In un classico schema che ricorda la domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina, la pandemia potrebbe avere innescato un cambio di mentalità. E, parafrasando Billy Joel, un inflation state of mind potrebbe avere il suo peso.

Gli anni recenti sono stati contraddistinti del last minute, dall’improvvisazione, dalla possibilità di scendere in un negozio o in un supermercato in qualunque momento e comprare quello che ci serviva, di andare a cenare fuori quando ci pareva.

Con la pandemia molti hanno ricominciato a programmare la scansione temporale dei propri acquisti con attenzione, a riscoprire l’abitudine di accumulare scorte. L’arrivo del virus ci ha costretti a vedere immagini di scaffali vuoti nei supermercati di molti Paesi. La mentalità dell’accumulazione è tipica dei contesti inflattivi e di scarsità, soprattutto di quelli altamente inflattivi: il timore che il prezzo dei beni che ci servono possa aumentare, o di non trovarne più in circolazione, ci porta a costituire scorte, in modo da acquistare di più oggi, a un prezzo più basso di quello che ci aspettiamo in futuro. Al contrario, la mentalità last minute è tipica di un contesto deflattivo: più si aspetta, più probabilità ci sono di fare un buon affare perché il prezzo può scendere, se non si teme di non poter trovare ciò che si desidera. Personalmente, sono convinto che la mentalità dell’accumulazione sia in una prima fase originata da un contesto inflattivo e/o di scarsità, anche se poi la dinamica di domanda e prezzi crescenti può innescare un circolo che si autoalimenta, nel quale una domanda più intensa spinge i prezzi verso l’alto, magari anche a una minore disponibilità di beni nell’immediato, il che porta a una domanda ancora superiore.

Ora che l’allentamento delle misure di contenimento di Covid-19 è iniziato in molti Paesi, potremo osservare se, dopo varie settimane di lockdown nel quale la gente si è abituata a dover gestire i propri approvvigionamenti in modo meglio organizzato e programmato, questo effetto durerà oppure si tornerà a una maggiore improvvisazione. A meno che non si ritorni ad avere un blocco delle catene di produzione e un contingentamento forzoso degli acquisti, mi sembra improbabile che questo potenziale – e per ora verosimilmente modesto – cambio di mentalità possa contribuire ad alimentare l’inflazione. Però, a differenza di quanto mi sembra di avere visto accadere almeno negli ultimi dieci anni, credo che possa permettere a una dinamica positiva dei prezzi di attecchire, se dovesse rimettersi in moto. E creerebbe un contesto profondamente diverso, che potrebbe avere implicazioni per i mercati finanziari e gli investimenti, benché probabilmente possa essere ancora presto per occuparsene.

A cura di  Luca Tobagi, Investment Strategist di Invesco

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