Così il coronavirus cambia gli equilibri politici globali

A cura di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset, e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management

Pechino è in lockdown. Le scuole sono state chiuse e i voli cancellati, con delle decisioni che hanno riportato la capitale cinese indietro nel tempo, a inizio febbraio, quando il Paese asiatico viveva, prima di tutti gli altri, il suo momento di massima emergenza. Le poche centinaia di casi registrati in una città che conta oltre 20 milioni di abitanti sono bastate per far riaffiorare con prepotenza il timore (o la consapevolezza) che un ritorno anche solo a una parvenza di normalità non sia ancora possibile.

Sarà sufficiente per trasformare il percorso di ripresa, che sembrava indirizzato verso un recupero a “V”, in una meno incoraggiante dinamica a “W”, o peggio (“L” o “baffo della Nike”)? Probabilmente no, ma senza dubbio va ad aggiungere incertezza in un contesto già estremamente fluido e di difficile lettura. Nel giro di pochi mesi, siamo passati infatti dal parlare di crescita globale positiva per quasi 3 punti percentuali a dover fare i conti con previsioni per una recessione globale nel 2020, che secondo alcuni potrebbe portare a una riduzione del Pil fino al 7%, ben peggiore rispetto a quanto avvenuto durante la Grande Depressione o nei dopoguerra susseguenti ai due conflitti mondiali del secolo scorso. Addirittura, se a inizio anno erano 160 gli Stati per cui si prevedeva un miglioramento del reddito pro-capite, oggi a distanza di poco più di 5 mesi, questa statistica si è completamente ribaltata: secondo le attese, nel 2020 saranno 170 i Paesi che sperimenteranno un calo del reddito pro-capite.

In tale contesto di rallentamento globale, sembra uscire vincitore il continente asiatico. Nonostante proprio da lì sia partita l’emergenza sanitaria e nonostante i citati rischi di una seconda ondata di contagi, al momento in Asia si registrano non solo un numero inferiore di decessi per il coronavirus, ma anche minori danni economici rispetto al resto del mondo. Questo dovrebbe ampliare ulteriormente il divario di crescita tra i Paesi sviluppati e quelli orientali, un trend in atto ormai da parecchi anni e che ha portato molti osservatori a definire il XXI secolo come “il secolo asiatico”, che arriva dopo quello europeo (XIX) e quello americano (XX). Un continente in cui cresce la sfera di influenza politica ed economica della Cina, anche se sta montando, nel mondo in generale e anche in alcuni Paesi asiatici, un certo atteggiamento anti-cinese. Basti pensare alle continue proteste di Hong Kong o al recente scontro (non a fuoco, ma con morti) al confine tra India e Cina.

L’altro grande polo del mondo, quello destinato a lasciare lo scettro se il passaggio di consegna ci sarà, gli Stati Uniti, è oggi alle prese con un mix di problematiche che potrebbe risultare fatale per le ambizioni di rielezione del Presidente Trump. Se da un lato la gestione dell’emergenza sanitaria da parte dell’amministrazione è stata giudicata per molti versi inadeguata, dall’altro il Paese in queste settimane è attraversato anche da un’ondata di violente proteste che fa pensare ad una vera e propria pandemia sociale, che si aggiunge a quella sanitaria. Il risultato è una graduale ma costante perdita di consenso da parte di Donald Trump, a gennaio dato per certo vincitore nei sondaggi e oggi proiettato al 40% (una percentuale che comunque permette di sperare in una recupero al foto-finish). In quella che si preannuncia un’elezione fortemente contesa, salgono quindi le probabilità di vittoria del candidato democratico Joe Biden. Dal punto di vista geopolitico, però, il cambio al vertice non dovrebbe portare ad un dietro-front totale nella narrativa nazionalista. Seppur con toni verosimilmente più moderati e meno unilateralisti, con ogni probabilità proseguirà infatti la campagna per riportare economia e lavoro negli Usa, in uno spirito di autarchia e una volontà di accorciare le filiere produttive come stiamo osservando in vaste parti del mondo e che potrebbero portare ad una revisione del modello economico attualmente in vigore: senza poter parlare di de-globalizzazione, in un mondo che rimarrà fortemente globalizzato, emergeranno però, con maggior decisione, spinte significative ad un’integrazione su base regionale (Nord America, Europa, Asia).

Anche in tale ottica, va letta la forza centripeta scaturita in Europa nelle ultime settimane. In mezzo ai venti di guerra fredda tra Usa e Cina, il Vecchio Continente, dopo aver gestito le prime fasi della pandemia all’insegna della divisione tra Stati, ha abbandonato in poco tempo gli storici simboli dell’austerità e ha fatto decisivi passi in avanti, impensabili fino a pochi mesi fa, verso una maggiore unità. In questa rivoluzione della “nuova Europa”, il tema sicuramente centrale è quello del piano di recupero, che lo si voglia chiamare, nella vecchia denominazione, recovery fund o, in quella più recente, Next Generation Eu. Le trattative tra i leader europei per arrivare a definire i dettagli del programma si prospettano lunghe e complesse, tanto che la possibilità di un accordo già sta slittando al mese di luglio (venerdì 19 giugno si è tenuto un primo meeting virtuale in cui i 27 capi di governo hanno analizzato la proposta della Commissione). In ogni caso, verosimilmente occorrerà attendere il 2021 prima che le risorse previste dal Recovery Fund vengano effettivamente erogate, 750 miliardi di euro di cui 500 miliardi a fondo perduto.

Prima di tale data, come abbiamo già sottolineato in altre occasioni, per il nostro Paese resta nel frattempo percorribile la strada del ricorso al Mes, da attivare in combinazione con l’Omt della Bce. Nel complesso, l’insieme delle misure di sostegno fiscale e monetario messe in piedi dalle istituzioni comunitarie fa sì che il fabbisogno finanziario italiano nei prossimi anni possa essere in gran parte soddisfatto tramite le risorse europee, ricorrendo quindi in misura minore all’emissione di Btp sul mercato. Lo stesso varrà per gli altri Paesi dell’Unione Europea duramente colpiti dal virus e che saranno, come l’Italia, beneficiari di trasferimenti netti di risorse comunitarie, a discapito degli Stati con bilanci nazionali più solidi, Germania su tutti.

Se la partita per il dominio del mondo si delinea quindi essenzialmente bipolare, con Stati Uniti e Cina a contendersi il controllo di sfere di influenza sempre più vaste, in tale contesto l’Europa non sembra voler recitare un ruolo da spettatore passivo, ma anzi cerca di farsi trovare pronta attraverso una sempre maggiore integrazione.

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