Dollaro e oro, non è l’inizio della fine. La view di Alessandro Fugnoli

A cura di Alessandro Fugnoli, Strategist di Kairos

C’erano una volta gli strilloni. Fino alla guerra erano spesso ragazzini, a volte giovanissimi. Si mettevano lungo i viali affollati e vendevano ai passanti e agli automobilisti i giornali freschi di stampa. Sheldon Adelson, che nel 2008 era arrivato a essere il terzo uomo più ricco d’America e a controllare mezza Las Vegas, entrò nell’ascensore sociale da bambino vendendo giornali per le strade di Boston.

Gli strilloni avevano bisogno di una buona voce e della capacità di capire al volo chi avrebbe abbassato il finestrino al semaforo e allungato le monetine per l’acquisto. Ma, soprattutto, avevano bisogno di una notizia da gridare, possibilmente sensazionale o scandalosa. I direttori dei giornali popolari lo sapevano benissimo e li aiutavano in tutti i modi possibili producendo titoli di prima pagina ad effetto.

Nessuno strillone, nemmeno il più bravo, avrebbe avuto il coraggio di gridare “Sale l’oro alle stelle per effetto della diminuzione dei tassi reali” o “Crolla il dollaro per effetto della diminuzione del differenziale dei tassi”. Molto più efficace, per le vendite, sarebbero stati “I nostri soldi saranno carta straccia” o cenni non velati alla fine dell’impero americano o dell’Occidente tutto, all’America come repubblica delle banane o alla Cina che si impadronirà presto delle nostre vite.

Con questo non vogliamo dire che un’analisi strillata sia per forza falsa e che un’analisi noiosa sia per forza corretta. Sarebbe bello che fosse così semplice.

Né vogliamo sminuire il fatto che l’oro, dal 2000 a oggi, abbia reso più dei bond lunghi, che a loro volta vengono spesso citati per stupire gli interlocutori che credono che l’investimento azionario abbia reso più di tutto il resto. Né vogliamo passare sotto silenzio che, dall’inizio di quest’anno, con tutto il rispetto per la mirabile performance della grande tecnologia, i titoli auriferi siano saliti ancora di più.

Nemmeno può essere negato che il dollaro, negli ultimi due mesi, sia riuscito a scendere non solo contro l’euro rinvigorito dal recovery fund, ma anche contro il real brasiliano, la moneta di un paese che si ama guardare con la massima preoccupazione.

Insomma, non ha senso negare l’evidenza e tantomeno rinnegare il sostegno all’investimento in oro che suggeriamo da tempo, ma è bene non fare confusione sulle cause della forza dell’oro e della debolezza del dollaro.

Nulla su questo mondo è eterno e non lo sarà nemmeno il dollaro come valuta di riserva, ma la notizia della fine del dominio del dollaro è quantomeno prematura. Tutti i paesi del mondo (con l’eccezione di quelli che emettono valute di riserva) devono mantenere riserve valutarie adeguate a pagare le loro importazioni.

Come sono regolati i prezzi negli scambi commerciali internazionali? Quasi sempre in dollari. Come si paga il petrolio che si importa? In valuta locale? No. In renminbi, euro o franchi svizzeri? No. Si paga in dollari, come si è continuato a fare anche dopo il 1971, quando l’America abbandonò la parità fissa tra dollaro e oro e si mise a stampare dollari e a svalutare aggressivamente. Chi ha riserve abbondanti, come la Cina, mantiene a riserva anche euro e yen, ma lo fa perché importa anche da Europa e Giappone, non perché pensa che l’euro salirà nei confronti del dollaro. La composizione delle riserve globali è del resto molto costante nel tempo. I dollari ne costituivano il 62,8 per cento nel 2008 e sono il 62 per cento oggi.

Il renminbi diventerà sicuramente una delle valute di riserva per diversificazione, ma non sarà la valuta di riserva per molti anni ancora. A chi pensa che la Cina dominerà l’economia mondiale per effetto, se non altro, del suo miliardo e mezzo di abitanti, ricordiamo che a un certo punto del prossimo secolo la popolazione di Cina e America sarà quasi la stessa. Quanto all’accordo tra Cina e Iran dei mesi scorsi (petrolio in cambio di renminbi per i prossimi trent’anni), se ha fatto notizia è proprio perché si tratta di un caso isolato.

Se l’oro sale (e continuerà a salire) non è per la fine del dollaro (sul dollaro si è visto di ben peggio) né per l’inflazione alle viste. Per il momento alle viste c’è la deflazione da Covid, non l’inflazione, e l’esplosione di offerta di moneta negli Stati Uniti non si trasformerà mai in inflazione finché la velocità di circolazione della moneta continuerà a scendere.

Per spiegare la forza dell’oro basta, semplicemente e banalmente, la discesa dei rendimenti reali offerti dai suoi più diretti concorrenti, i governativi americani. Questi rendimenti sono oggi negativi e lo saranno ancora di più se verrà realizzata davvero qualche forma di controllo di curva che li manterrà vicini a zero anche quando l’inflazione, un giorno, risalirà.

Quanto al dollaro, la sua sopravvalutazione era cosa nota da anni e non è difficile capire come l’amministrazione Trump (il dollaro dipende dal Tesoro, non dalla Fed) sia ben felice di gonfiare gli utili del terzo trimestre degli esportatori americani che verranno comunicati in ottobre, dando una spinta a Wall Street giusto alla vigilia delle presidenziali.

Strutturalmente, però, se c’è una cosa da rimarcare è come l’America abbia retto bene al dollaro forte. Il disavanzo delle partite correnti degli Stati Uniti è meno del 2 per cento del pil, un terzo di quello che era arrivato a essere negli anni 2000.

Per spiegare la debolezza del dollaro basta quindi il ridursi del differenziale di rendimento tra i governativi americani e quelli del resto del mondo. Questo differenziale un giorno tornerà a risalire, ma non nel breve termine. In questa fase, quindi, gli investimenti in dollari non dovranno essere in risk free e dovranno anzi cercare di massimizzare il rischio andando sull’azionario americano e sull’oro.

Venendo al breve, alcune grandi banche internazionali iniziano a consigliare il passaggio da tecnologia a ciclici ed emergenti in vista dell’arrivo dei vaccini. Nessuno sa davvero quanto saranno efficaci (e privi di controindicazioni), ma certamente arriverà un momento, da novembre in avanti, in cui i mercati si lanceranno in grandi scommesse su una ripresa generalizzata dell’economia globale e punteranno su tutto quello che è rimasto indietro. Questo non penalizzerà necessariamente la tecnologia, ma la metterà comunque, per una fase, in secondo piano. Per il momento ci sembra sufficiente mantenere una composizione azionaria equilibrata.

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