Amundi Pioneer: dopo la pandemia vincono le azioni Usa

“La realtà del mercato post-pandemia accentua l’attrattività del mercato azionario statunitense”. A sostenerlo è Marco Pirondini, Head of Equities per gli Usa di Amundi Pioneer (Boston), il quale osserva che, analogamente al periodo successivo alla Grande crisi finanziaria, lo scenario nel medio-lungo termine dovrebbe favorire ancora una volta “le società a grande capitalizzazione, caratterizzate da una forte crescita di lungo periodo, stabilità e un approccio difensivo. Queste caratteristiche definiscono una parte molto più elevata del mercato statunitense rispetto al resto del mondo determinando, a nostro avviso, una possibile prospettiva più ottimistica per le azioni statunitensi”.

Nello specifico, spiega Pirondini, “la nostra analisi ‘The Case for US Equities in Global Portfolios’ si basa sul presupposto che, a differenza di altri mercati, l’indice S&P 500 non è particolarmente rappresentativo dell’economia statunitense. Piuttosto, raccoglie le migliori e più redditizie società del mondo. Ma l’economia americana non è il mercato azionario americano!”

Questo significa che, se da un lato l’economia americana ha certamente sofferto della chiusura delle attività a causa del Covid-19, dall’altro le implicazioni per i settori che rappresentano oltre il 75% dell’indice S&P 500 sono state neutrali o positive e, secondo Amundi, persisteranno anche nel panorama economico post-pandemia. Questi settori sono nel campo della tecnologia (smart working, digitalizzazione accelerata, adozione del cloud, che rappresentano il 27% dell’indice S&P 500), della sanità, che acquisisce immensa importanza alla luce del Covid-19 e rappresenta il 15% dell’indice S&P 500, delle comunicazioni (5G, i social media e la ricerca, lo streaming, che insieme rappresentano l’11% dell’indice S&P 500), beni di prima necessità, che hanno aumentato i volumi (7% dell’indice S&P 500), immobiliare, dove la maggior parte del peso dell’indice è composta da operatori di infrastrutture wireless (5G), data center e magazzini logistici di e-commerce, che sono stati tutti caratterizzati da una maggiore attività (3% dell’indice S&P 500), servizi di pubblica utilità (3% dell’indice S&P 500), beni di consumo discrezionali (11% dell’indice S&P 500). I settori sensibili all’andamento dell’economia, quali Finanza, Industria, Energia e Materiali, che hanno avuto un impatto negativo, costituiscono l’altro 30%, spiega Pirondini.

“È importante notare che il peso delle società nell’indice S&P 500 è una funzione dei livelli di profitto e, quindi, della valutazione, e non del numero di dipendenti. Ciò dimostra ulteriormente che il mercato azionario statunitense non rappresenta l’economia”, argomenta Pirondini. Alcuni esempi sono rappresentati da American Airlines, Macy’s e Marriott “che alla fine del 2019 impiegavano nel complesso 430.000 persone, per lo più negli Stati Uniti, avevano una capitalizzazione di mercato totale di circa 38 miliardi di dollari, inferiore a 14 punti base nell’indice S&P 500”. Invece “Apple, Microsoft, Alphabet/Google e Facebook avevano nel complesso quasi lo stesso numero di dipendenti a fine 2019, ma con una capitalizzazione di mercato totale superiore a 4.500 miliardi di dollari, circa il 17% dell’indice S&P 500. Inoltre, circa la metà dei ricavi di questi quattro giganti globali, e una percentuale significativa di dipendenti, si collocano al di fuori degli Stati Uniti, eppure la capitalizzazione di mercato è interamente all’interno del mercato statunitense”.

La composizione del mercato degli Stati Uniti rispetto ad altri mercati si è evoluta nel tempo e può essere attribuita a diversi fattori: innanzitutto le azioni statunitensi hanno generalmente sovraperformato nel tempo rispetto alle altre azioni dei mercati sviluppati, creando di conseguenza maggiore ricchezza. Inoltre, spiega ancora l’esperto, “il rendimento del capitale investito è stato superiore, contribuendo così alla loro maggiore redditività e al premio di valutazione del mercato americano. L’effetto di una redditività storicamente più elevata sulla performance delle azioni statunitensi è evidente”. Pirondini ritiene che l’incertezza economica della situazione attuale abbia creato una carenza di visibilità sulla redditività futura, di cui le società a bassi ritorni saranno quelle che pagheranno le maggiori conseguenze. Inoltre, in una situazione in cui i debiti sono esplosi, saranno favorite le aziende con bilanci più solidi e crescita sostenibile, “molte delle quali si possono trovare sul mercato Usa”, e che potranno beneficiare delle migliori condizioni del credito, “consolidando ulteriormente la propria market share”.

E, ancora, i fattori che hanno determinato il divario in termini di innovazione, crescita e profitto tra gli Stati Uniti e gli altri mercati sono stati strutturali e duraturi. “Riteniamo improbabile che gli Stati Uniti perdano il proprio vantaggio competitivo nei servizi di comunicazione e nell’information technology nel prossimo futuro”, afferma Pirondini, ricordando che finora solo la Cina ha dimostrato di essere un temibile competitor degli Usa in questi campi.

A ciò occorre aggiungere l’impatto dei driver delle politiche pubbliche, che influenzano la composizione, l’innovazione, la crescita e la performance nelle varie regioni. In questo senso, le iniziative di public policy hanno sempre tenuto in grande considerazione l’impatto sul mercato azionario. Inoltre, un’altra particolarità del mercato statunitense è una struttura economica caratterizzata da imposte più basse e mercati del lavoro flessibili, che ha permesso alle imprese statunitensi di godere di un vantaggio in termini di modelli di business. Infine, “una più efficace circolazione del capitale”, legata al fatto che la maggiore redditività ha da sempre dato slancio ai buyback, che consentono di far circolare il capitale e indirizzarlo verso progetti più promettenti, “ha fornito ulteriore slancio alla crescita e all’innovazione”, conclude Pirondini.

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