L’azionario vola spinto dall’effetto FoMO. Grazie alla Fed

A cura di Clément Inbona, gestore di La Financière de l’Echiquier

FoMO. Dietro questo acronimo barbaro si cela l’espressione inglese “Fear of Missing Out“, l’ansia di lasciarsi sfuggire un’occasione. È stato usato qualche mese fa per giustificare la corsa all’acquisto di farina o carta igienica sugli scaffali dei supermercati e, più recentemente, per illustrare i primi ordinativi compulsivi, da parte degli Stati, di vaccini ancora in fase di sviluppo. L’espressione, nota da tempo ai professionisti della finanza, è destinata a radicarsi ancora di più nel lessico borsistico dopo il discorso tenuto da Jerome Powell il 27 agosto 2020.

L’attuale presidente della Fed ha messo a segno un’autentica rivoluzione durante il suo intervento al Jackson Hole Symposium, il consesso per eccellenza dei governatori centrali. Ha infranto il dogma dell’obiettivo di un’inflazione al 2% su cui poggiano oggi i mandati di tutte le principali banche centrali. La Federal Reserve ha così annunciato che non punterà più a un’inflazione del 2% bensì a un’inflazione media del 2% nel tempo. Potrà quindi, qualora fosse necessario, lasciare salire i prezzi per “un certo periodo di tempo” onde compensare i periodi di inflazione al di sotto dell’obiettivo.

Un cambiamento, all’apparenza lieve, che si rivela in realtà importante se ci si rende conto che nel corso degli ultimi dieci anni la misura dell’inflazione di fondo negli Stati Uniti ha superato l’obiettivo soltanto per il 10% del tempo (per l’esattezza, durante soli 13 mesi).

Ad oggi, la Fed sta già perseguendo una politica estremamente accomodante con tassi di riferimento che si aggirano intorno allo 0% e uno tsunami di acquisti di titoli obbligazionari a causa, soprattutto e ovviamente, dello shock congiunturale che l’economia statunitense si trova ad affrontare. Ma questo posizionamento è tutt’altro che provvisorio. La Fed rimarrà accomodante per lungo tempo anche se il contesto economico riprenderà un normale percorso di crescita e ritroverà un livello occupazionale più soddisfacente, mentre gli aumenti dei prezzi si avvicineranno al 2%.

Con il 21% già delle obbligazioni a livello mondiale caratterizzate da rendimenti negativi e una politica monetaria costantemente accomodante, è probabile che l’attrattiva dell’asset class obbligazionaria rimanga bassa per molto tempo ancora. In un mondo di tassi negativi il rischio senza tassi sarà la norma.

Con questa decisione, la Fed spinge gli investitori verso asset più rischiosi e quindi, potenzialmente, più redditizi, dove le azioni sono un candidato accreditato. L’effetto FoMO, del resto, giustifica certamente le performance passate delle azioni nonostante le valorizzazioni siano da tutti ritenute costose in una prospettiva storica. In primo luogo, perché il prosciugamento dei rendimenti obbligazionari ha già spinto gli investitori verso questa asset class, ma anche perché il timore di “lasciarsi sfuggire qualcosa” potrebbe essere provocato ancora più direttamente dal governatore centrale se acquistasse direttamente le azioni, come ha già potuto fare con le obbligazioni nei suoi programmi di quantitative easing.

Se consideriamo che la banca centrale statunitense segue le orme della sua controparte giapponese con diversi anni di ritardo però, non siamo poi così lontani dal vederla intervenire direttamente sul mercato azionario. Quest’anno, infatti, la Bank of Japan è diventata il maggiore azionista del mercato giapponese, scavalcando il Gpif, un potente fondo pensione giapponese. La paura dell’occasione mancata ha un futuro promettente.

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