Finita l’estate, finito il rally? Ecco che cosa frena i mercati

“L’estate è ormai alle spalle, e con lei sembra essersene andato anche il rally di mercato. Dai minimi toccati il 23 marzo le borse hanno corso a un ritmo forsennato (+42,6% dell’indice Msci World in euro fino ai massimi relativi del 2 settembre), prima di fermarsi a inizio settembre per riprendere fiato. La recente correzione rispecchia in primo luogo l’esaurimento di alcune forze propulsive che hanno sostenuto in questi mesi il trend rialzista. Innanzitutto, a livello di valutazioni: dopo essere scesi al di sotto di 13 a metà marzo, i multipli PE risultano oggi più cari rispetto alla loro media sia a breve (1 anno) sia a lungo termine (10 anni). Negli Stati Uniti le valutazioni, oggi pari a oltre 22 volte gli utili attesi a 1 anno, sono addirittura un 40% circa al di sopra del loro valore medio di lungo termine”. E’ quanto notano Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet Asset Management. Di seguito la loro analisi.

Certo, non sono mancati nelle ultime sedute anche alcuni fattori tecnici, come la fine del malsano comportamento nel caso delle aziende più gettonate e premiate anche per aver effettuato un semplice frazionamento delle azioni (stock split), incapace di creare reale valore e atto solamente a rendere il titolo più appetibile per gli investitori privati (si vedano i casi di Apple e Tesla).
Nonostante le valutazioni da “saldi” siano finite presto, tra fine marzo e inizio aprile erano subentrate tempestivamente le politiche economiche a supportare i mercati.

Le politiche monetarie ultra-espansive, in particolare, con il bilancio della Fed cresciuto in poco tempo da 4mila a 6mila miliardi di dollari, trascinando i tassi reali in territorio abbondantemente negativo avevano contribuito a sospingere in alto le borse e a ridurre parzialmente i premi di rischio. Ma anche tale elemento sembra aver esaurito la propria spinta: le banche centrali, pur restando estremamente accomodanti, hanno rallentato notevolmente il ritmo degli stimoli monetari e gli stessi tassi reali hanno mostrato un leggero movimento rialzista nelle ultime sedute. Per poter continuare la propria corsa, ai mercati non resta quindi che fare affidamento sulla ripresa economica, come successo già nei mesi estivi, caratterizzati da dati macroeconomici che sorprendevano in positivo.

Le previsioni economiche continuano a migliorare, riflettendo il recupero dell’attività sia lato offerta, soprattutto nei Paesi emergenti dove la capacità produttiva è stata efficacemente difesa e dove i servizi incidono meno sul Pil, sia lato domanda, con le vendite al dettaglio in costante risalita. La ripresa dei consumi, al contrario di quanto avviene sul fronte della produzione, riguarda in primo luogo il mondo sviluppato, dove si è potuto agire di più tramite politiche economiche a supporto della domanda. Questo è stato particolarmente vero per i Paesi che hanno una moneta che funge da valuta di riserva internazionale, quali gli Stati Uniti, il Giappone e l’eurozona (dove però la sovranità è ripartita tra i singoli Stati), che hanno potuto compiere manovre di politica fiscale senza correre un eccessivo rischio di svalutazione della propria valuta.

Vista la dinamica divergente che vede l’offerta pendere in favore dei mercati emergenti e la domanda in favore, invece, di quelli sviluppati, affinché l’economia globale possa continuare a seguire un percorso di recupero a “V”, assume un ruolo sempre più centrale il commercio internazionale. Da questo punto di vista, oltre alla spada di Damocle rappresentata dalla pandemia di Covid-19 e, soprattutto, dall’eventualità di nuovi dannosissimi lockdown, la minaccia principale arriva dagli Stati Uniti e, nello specifico, dalla possibilità del proseguimento della tensione sulle politiche commerciali iniziate con la presidenza Trump. Una riconferma dell’amministrazione repubblicana, che nell’immediato potrebbe essere anche gradita dai mercati, se non altro per la continuità che verrebbe data alle politiche attuate negli ultimi 4 anni, rischierebbe quindi di rivelarsi in realtà un pericoloso boomerang nel medio termine.

È alle elezioni americane di inizio novembre, perciò, che gli operatori stanno puntando gli occhi, tentando di sciogliere il nodo gordiano composto dai diversi scenari possibili. I risultati di tale analisi predittiva non sono al momento entusiasmanti: il mercato sembra premiare l’eventualità della cosiddetta Blue Wave o Blue Sweep (Biden Presidente e Congresso controllato dai dem), ma con uno scarto probabilistico minimo rispetto all’opposta Red Wave (20% vs 15%), nonostante le probabilità implicite nelle puntate degli scommettitori vedano la prima in netto vantaggio (50% vs 17%). Tra gli scenari alternativi, i mercati assegnano una probabilità significativamente diversa da zero alla eventualità di elezioni contestate. Sul mercato della volatilità, i contratti sul Vix prevedono, infatti, un picco nel mese successivo alle elezioni, fatto molto inusuale. Inoltre, si prevede il proseguimento del periodo turbolento anche sul mese di dicembre, solitamente tranquillo.

Se effettivamente sarà vittoria dei democratici, questa potrebbe portare a una maggiore spesa fiscale, nella forma sia di trasferimenti sia di spesa governativa diretta, in grado di limitare il fenomeno del “fiscal cliff”, ossia il vuoto d’aria fiscale che rischia di crearsi al termine delle misure fiscali adottate nel momento più acuto della crisi e in vigore fino a fine settembre. In questi mesi, tali politiche di sostegno e, in particolare, i sussidi erogati ai cittadini statunitensi hanno fatto sì che il reddito disponibile crescesse, malgrado il poderoso aumento della disoccupazione. Cosa più unica che rara negli Stati Uniti, la crescita del reddito disponibile è stata accompagnata da maggiori risparmi da parte dei cittadini, con il tasso di risparmio che, complice l’incertezza legata alla pandemia e ai risultati delle elezioni, è schizzato al 18%. Un fattore che potrebbe contribuire a mantenere i consumi alquanto stabili anche quando a fine mese il venir meno di gran parte del supporto governativo provocherà delle oscillazioni al ribasso nel reddito disponibile. In ogni caso, sarà necessario smussare il più possibile il calo negli stimoli fiscali, varando nuove misure: ad oggi il consenso in tal senso sembra essere bipartisan, ma i democratici paiono più favorevoli alla continuazione della linea politica attuale. Come detto, una loro vittoria alle prossime elezioni porterebbe a una maggiore spesa fiscale, anche se accompagnata con ogni probabilità da maggiori tasse sugli utili societari (con effetto redistributivo del reddito) e, nel complesso, condurrebbe a una crescita del Pil più elevata.

Tale spinta economica rischia di produrre una risalita dell’inflazione e, in modo indiretto, di complicare la cooperazione tra politica fiscale e monetaria. Seppure nel cambio di mandato della Fed annunciato dal Presidente Powell al simposio di Jackson Hole sia prevista una maggiore tolleranza per livelli di inflazione al di sopra del 2%, una repentina ricomparsa di quest’ultima stimolata dalla politica fiscale potrebbe infatti indurre l’istituto centrale a rialzare i tassi prima del previsto (nell’ultima riunione della Fed il primo rialzo è stato escluso, per ora, fino alla fine del 2023). Potrebbe venir meno, quindi, quella copertura piena delle politiche fiscali da parte di quella monetaria che in questi mesi si è rivelata fondamentale per consentire ai governi di sostenere le proprie economie.

Con la pandemia sullo sfondo, le elezioni americane si delineano come un vero e proprio spartiacque nello scenario economico dei prossimi mesi e anni. A giudicare dai movimenti di mercato, gli operatori non sembrano avare idee chiare sul possibile esito, con il rischio aggiuntivo di elezioni contestate.

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