Semaforo verde sui mercati, quindi. Ma dal punto di vista della politica economica la situazione potrebbe essere più complicata, non tanto a causa delle varie richieste di riesame dei voti, quanto dallo split del Congresso dovuto a una probabile maggioranza repubblicana nel Senato. Sulla situazione al Senato si farà chiarezza solo a seguito dei due “run-off” di gennaio, in pratica si tratta di due votazioni extra dedicate allo Stato della Georgia. Nel caso di una divisione del Congresso, scenario che i media statunitensi danno per molto probabile, l’operatività dell’amministrazione Biden risulterebbe limitata. In particolare, la politica economica di Washington verrebbe rimodulata in versione bipartisan. Temi centrali della campagna elettorale come il pacchetto di stimoli fiscali (molto probabilmente una versione annacquata da 1,2-1,3 trilioni di dollari verrà annunciata nel primo trimestre del 2021), gli investimenti ecosostenibili dove Biden prevede un pacchetto da 2 trilioni di dollari, gli aumenti delle tasse alle imprese e il cambiamento di rotta sulla sanità sarebbero passibili di un blocco del Senato e potrebbero richiedere estenuanti contrattazioni.
Storicamente, ai mercati piace una situazione di “gridlock” politico, sia per il controllo incrociato che viene esercitato sulle leggi proposte dalla nuova amministrazione che per l’impossibilità di varare una strategia economica radicalmente diversa da quella in corso d’opera. Anche un Senato a guida Dem, però con maggioranza molto esigua potrebbe rientrare in questo scenario. Meno incertezza uguale più guadagni per il business. Ai mercati piace molto – a mio avviso – anche un distanziamento dalla strategia di “America First” (senza volerne valutare costi e benefici) e un probabile riallineamento con una politica di dialogo multilaterale con i partner strategici e storici, in particolare Uk ed Europa. Potrebbero anche migliorare i toni del dialogo con la Cina, anche se l’amministrazione Biden svolgerà un ruolo meno ambiguo su temi caldi come i diritti umani (e la questione di Hong Kong) e l’assetto militare nel mare della Cina.
Nonostante ciò la politica estera americana deve essere letta al di fuori del classico schema di Rodrik. È vero che a grandi linee la politica sovranista verrà rimpiazzata da un ritorno alla globalizzazione, ma questo cambiamento dovrà internalizzare due fattori cruciali: 1) il perdurare dell’epidemia da Covid-19 e l’effetto che essa ha sulla globalizzazione, e 2) l’avanzare inarrestabile della Cina su coordinate strategiche come le riserve valutarie, i mercati finanziari più in generale e la frontiera tecnologia, che ancora oggi sono un monopolio statunitense. Su questo secondo punto, sono pronto a scommettere che anche una Casa Bianca con sfumature blu darà battaglia per non perdere il vantaggio competitivo che corporate America si è conquistato dagli anni 50 a oggi. Settori che nel 2020 hanno sovraperformato (ad esempio applicazioni software e biotecnologia) potrebbero quindi continuare a performare anche in un contesto più generale di rivalutazione della filosofia value. Penso inoltre che la politica estera sarà il primo fattore di incertezza nei prossimi anni, politica estera che storicamente è un importante fusibile per ogni presidente che in casa sua si deve confrontare con una probabile forte opposizione al Congresso.