Pandemia e Pmi: vanificata la crescita degli ultimi cinque anni

Un calo di una o due classi per oltre la metà delle Pmi italiane, e addirittura di tre classi per un ulteriore 20%. Una vera e propria ecatombe per il merito di credito delle nostre piccole e medie imprese, il cui percorso virtuoso verso una solvibilità sempre maggiore potrebbe essere stato bruscamente interrotto dal Covid nel 2020. Gli impatti economico-finanziari del Covid hanno duramente colpito le PMI, compromettendone la crescita degli ultimi cinque anni. L’analisi, elaborata dall’Ufficio Studi Modefinance si basa su un campione di 85mila aziende che rispondono alla definizione di Pmi (ovvero presentano un fatturato tra 2 e 50 milioni o un totale attivo massimo di 43 milioni di euro e un numero di dipendenti compreso tra 10 e 250) e che al 30 novembre 2020 avevano depositato i bilanci del 2019.

La situazione al 2019: il rating mediano stava progressivamente spostandosi verso la Tripla B

Prima del Covid stavamo assistendo, almeno dal 2015, a una crescita, lenta ma costante, del rating: pur essendo ancora la valutazione mediana del 2019 sulla BB, si percepiva uno spostamento progressivo verso il livello superiore e in assenza del Covid avremmo potuto forse assistere nel 2020 a un passaggio di categoria, verso la BBB.

Cosa che, con ogni probabilità, non si verificherà. Tuttavia, alla luce della maggior resilienza delle nostre imprese, che hanno imparato anche a guardare a forme alternative di credito e a strumenti per l’efficientamento del circolante, oltre che ad una migliore gestione del cash flow, è ipotizzabile un inizio di ripresa nel 2021, che ci porterà nel lungo periodo a tornare ai valori ante-Covid.

La piccola e media impresa italiana che stava diventando grande…

L’osservazione dei dati del 2019 mostra, infatti, che le piccole e medie aziende italiane erano in crescita sia sul fronte quantitativo sia qualitativo fin dal 2016. Iniziamo dall’analisi del fatturato 2019: le aziende del campione che hanno depositato il bilancio in tutti gli anni dal 2016 al 2019 mostravano un valore mediano di 49 milioni rispetto ai 41 milioni del 2016, ai 44 milioni del 2017 e ai 46 milioni del 2018. Anche la distribuzione per fatturato mostrava che, in generale, la popolazione delle medie imprese si fosse rimpolpata a svantaggio delle piccole. Veniva rilevata, inoltre, una crescita delle aziende grandi, le più solide, e un calo verticale delle microaziende, che invece hanno sempre meno capacità di resistere nell’arena competitiva contemporanea.

Non si osservavano invece particolari variazioni sul fronte della redditività, che resta costante nei quattro anni di analisi intorno a un valore buono, del 10% (in particolare il riferimento è al ROE, che misura la reddittività del capitale proprio). Vale la pena sottolineare che le aziende in perdita diminuiscono da oltre 10mila a meno di 9mila nel 2019, segno di una selezione sempre più granulare sul mercato a cui consegue un miglioramento della qualità media.

…e si faceva resiliente (con la solvibilità in continuo miglioramento)

Anche tutti gli indici che riguardano la solvibilità confermano nel 2019 il trend di miglioramento graduale ma costante osservato dal 2016. Il leverage, che misura l’indebitamento totale esprimendo il grado di dipendenza da fonti di terzi, è passato da 3,4 al 2,7, dimostrando un miglioramento seppur lieve verso il valore 2,0 che indica un indebitamento bilanciato. Mentre il leverage finanziario, che misura il rapporto tra i debiti finanziario e patrimonio netto, passa da 0,87 a 0,72.

Anche se si guarda alla distribuzione del leverage si osserva un netto calo della quota delle Pmi che hanno leverage molto negativo (sopra il valore 5,0) mentre è aumentata sensibilmente la fetta di quelle che rientrano nei parametri di sicurezza. E la variazione del 2019 sul 2018 è molto superiore rispetto a quella dell’anno precedente sul 2017.

Frenata anche la crescita della liquidità?

Anche sul fronte della liquidità il miglioramento ha subito nel 2019 un balzo molto più ampio rispetto agli anni precedenti. I dati che abbiamo analizzato sono il current ratio mediano, che misura la capacità dell’impresa di ripagare i debiti a breve termine (attività correnti/passività correnti). Nelle attività correnti rientrano le risorse di denaro liquido dell’azienda e quelle che si presume possano essere convertite in denaro entro un anno. Per questo parametro è auspicabile che il valore si collochi al di sopra di 1,5 e le nostre aziende mostrano una crescita debole ma costante passando da 1,33 del 2016 ad 1,40 del 2019.

Alla luce di quanto avvenuto nel corso del 2020, si è provato a stimare gli impatti di tale crisi proiettando i bilanci alla situazione attuale, così da ottenere le probabili valutazioni di merito creditizio: ne risulta uno scenario compromesso, con un pericoloso quanto evidente spostamento di tutto il panorama verso i rating inferiori. Dal campione sparisce la classe delle triple A e le aziende in default diventano il 4,36% dallo 0,11% della situazione ante-Covid. Anche i rating C – considerate situazioni a un passo dall’insolvenza – passano al 13,8% dall’1,11% e le CC a quota 17,45% da 2,81%. E questo effetto si verificherebbe nonostante le nostre aziende abbiano realizzato nel corso del 2019 un evidente miglioramento nei numeri di bilancio e una costante crescita di tutti finanziari. La simulazione è stata effettuata con il modello previsionale ForST che, basandosi sulle più avanzate tecnologie di AI e data science, permette di effettuare stress-test su variabili chiavi per la definizione di bilanci e flussi di cassa.

L’esercito di angeli caduti

C’è un dato impressionante che dà una misura dei danni causati dalla pandemia ed è appunto quello che fotografa il merito di credito nel 2020. Le proiezioni sulla valutazione del rating mediano dell’universo delle Pmi vedono passare la classe di score da BB a CCC. In generale, come illustra l’istogramma che segue, si osserva come un’onda che sposta le Pmi verso le classi di rating inferiori, facendo praticamente scomparire i livelli AAA e AA e creando potenzialmente un vero e proprio esercito di junk, dalla CCC in giù. Dopo il Covid, le Pmi che si collocano nelle classi più rischiose appaiono essere oltre il 55%, rispetto al 10% circa dello spaccato 2019.

Solo il 15% delle Pmi su cui è stata effettuata la simulazione vede il suo rating restare invariato: parliamo di 12.800 aziende a cui si aggiungano le 1.160 che invece vedono il proprio merito di credito migliorare (appena l’1,36%, quasi un’eccezione che conferma la regola). La stragrande maggioranza delle Pmi potrebbe subire un downgrade: il 28%, ovvero oltre 24mila imprese, di un livello; un ulteriore quarto (21.500 Pmi) viene declassata di ben due classi e quasi il 20%, ovvero ancora 16.500 aziende, vede il suo merito di credito ridursi di tre classi. Potenzialmente rilevante anche il dato relativo alle quasi 7mila imprese che vengono declassate di 4 livelli e le 2.100 che ne perdono 5. In tutto, oltre 70mila Pmi italiane risultano essere affette dalle negatività di questa crisi, con una bocciatura più o meno sonora.

Peculiarità di questa crisi legata al Covid-19 è la natura particolarmente asimmetrica: le regole imposte per la sicurezza sanitaria hanno chiaramente determinato impatti diversi su diversi settori. Come ci hanno già insegnato la crisi del 2008 e la ricaduta del 2011, le imprese nostrane si adegueranno con tagli sui costi operativi e sui servizi, favorendo l’adozione di strumenti in grado di automatizzare le procedure interne. Nonostante gli effetti mitigatori degli interventi messi in campo (il blocco dei licenziamenti, prorogato al 2021, ed il massiccio ricorso alla Cassa integrazione) la piccola e media impresa andrà a ridurre con ogni probabilità anche i costi del lavoro; ciononostante, è prevedibile riscontrare nuove cadute della redditività e della liquidità, con valori tra il -13 ed il -17%.

Sarà dunque vitale il colossale piano di finanziamenti Europei con una dotazione di 750 miliardi – Next Generation EU – che ha messo al centro digitalizzazione e sostenibilità, spartiacque tra le aziende che avranno capacità e lungimiranza di evolversi ed adeguare il proprio modello di business, e imprese che non saranno in grado di attrare finanziamenti sul mercato.

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