Crollo del dollaro, un segno premonitore?

“Il dollaro Usa sta entrando in un nuovo pluriennale ciclo ribassista o sta solo attraversando un episodio di debolezza in un decennio rialzista? È la domanda che si pongono molti investitori dato il costante declino del dollaro dallo scoppio della pandemia. Solitamente i cicli del dollaro durano diversi anni. L’alternanza tra cicli rialzisti e ribassisti è lenta e spesso presenta false partenze. Pur essendo troppo presto per affermare che il dollaro sia entrato in un nuovo ciclo ribassista, alcune importanti tendenze indicano questa direzione. Con il senno di poi, il 2020 potrebbe rappresentare un punto di svolta per la valuta”. E’ l’opinione di Thomas Høgh, Fixed Income Portfolio Manager di Capital Group. Di sweguito la sua visione.

Potremmo trovarci di fronte a un nuovo punto di inflessione. I recenti cambiamenti attuati nella politica fiscale e monetaria in risposta alle ricadute economiche della pandemia, insieme alla crescente incertezza sulla politica economica, potrebbero portare a un nuovo ciclo ribassista. In particolare, tre tendenze risultano importanti da questo punto di vista: la convergenza della politica monetaria tra le economie avanzate, l’aumento vertiginoso del disavanzo di bilancio federale e i notevoli cambiamenti nei flussi commerciali globali.

La convergenza dei rendimenti reali riduce l’attrattiva del dollaro

I massicci stimoli monetari e i tagli ai tassi d’interesse attuati dalla Federal Reserve in risposta all’epidemia di Covid-19 sono alla base di gran parte dei timori in merito a un potenziale ciclo ribassista del dollaro. Tali misure hanno limitato il sostegno offerto alla valuta, riducendo drasticamente il vantaggio di rendimento reale dei titoli di Stato Usa rispetto a quelli emessi da altre economie avanzate. Dal 2013 gli interessanti rendimenti Usa rettificati per l’inflazione rispetto a quelli di Germania, Giappone e Regno Unito hanno alimentato il rafforzamento del dollaro. L’effetto è stato amplificato nel 2015, quando la Federal Reserve ha avviato un ciclo triennale di aumenti dei tassi di interesse, offrendo al dollaro un eccezionale vantaggio di carry.

L’aumento del disavanzo di bilancio potrebbe esercitare pressione sul dollaro

È da quasi due decenni che Washington registra un disavanzo primario, ma le misure messe in atto dal governo per contrastare gli effetti economici della pandemia l’hanno fatto crescere a dismisura. Al 30 giugno, in percentuale del prodotto interno lordo, il disavanzo stava per raggiungere i livelli elevati del secondo dopoguerra. In particolare, si è ampliato notevolmente rispetto ai disavanzi del Giappone e dell’area euro. Sono due le principali misure che si possono mettere in atto per contrastare un disavanzo di bilancio, ed entrambe potrebbero creare problemi per il dollaro. Un’opzione è tentare di ridurre il disavanzo riducendo la spesa pubblica o aumentando le tasse (o entrambe le cose), a svantaggio però degli investimenti e della crescita economica, riducendo l’attrattiva degli Stati Uniti come destinazione del capitale. L’approccio opposto è quello di astenersi dal ridurre il disavanzo nel tentativo di stimolare la crescita economica e il gettito fiscale federale. Per farlo la Fed dovrebbe portare avanti il quantitative easing in modo da sostenere la spesa pubblica, approccio che potrebbe innescare un’impennata dell’inflazione e un potenziale deprezzamento della valuta.

La localizzazione delle catene di approvvigionamento potrebbe deprezzare il dollaro

Un terzo fattore che potrebbe minare il ciclo rialzista del dollaro è la tendenza verso la localizzazione delle catene di approvvigionamento, ovvero un rallentamento o un’inversione di tendenza nel commercio globale. Già prima dello scoppio del Covid-19, l’aumento del protezionismo commerciale e le tensioni geopolitiche stavano spingendo verso la deglobalizzazione. La pandemia non ha fatto altro che esacerbare questa tendenza in quanto ha sottolineato i rischi associati alle interruzioni impreviste nelle catene di produzione just-in-time, che premiano l’efficienza rispetto alla ridondanza e all’eccesso di scorte. Quando le aziende abbandonano mercati a basso salario per rimpatriare la produzione, devono affrontare costi più elevati e magari una minore produttività. Queste dinamiche possono decretare una riduzione della crescita per ogni punto percentuale di aumento dell’inflazione, il che porta a decisioni politiche che favoriscono il rallentamento dell’economia per evitare il superamento degli obiettivi di inflazione. Se gli Stati Uniti abbandonassero le tendenze della globalizzazione fortemente seguite negli ultimi decenni, le esportazioni risulterebbero più costose e gli investimenti perderebbero parte della loro attrattiva a causa della crescita più lenta dei profitti delle imprese. Entrambe le cose peserebbero sui flussi di capitale estero e farebbero deprezzare il dollaro.

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!