Quanta inflazione arriverà per effetto degli stimoli fiscali?

Too much of a good thing, troppo di una cosa buona, è un’espressione piuttosto comune della lingua inglese. Risale al XVI secolo e la si ritrova anche in Shakespeare. C’è insomma una misura in tutte le cose, come dicevano i greci, anche in quelle belle, buone, piacevoli e positive. L’eccesso è controproducente.

Ma come spesso accade, a una massima di apparente saggezza che entra nell’uso, se ne va a contrapporre un’altra di senso contrario, spesso altrettanto fortunata. In italiano, ad esempio, l’unione fa la forza circola tranquillamente accanto a chi fa da sé fa per tre.

E così è in inglese da quando Mae West, attrice e autrice di grande intelligenza trasgressiva delle Hollywood e Broadway degli anni d’oro, mise in copione una delle sue più celebri battute allusive, you can never have too much of a good thing, non si ha mai troppo di una cosa buona, che da allora circola in inglese con la stessa frequenza dell’originale moderato cui si contrappone.

L’appassionato dibattito che si è aperto in America tra gli economisti di area democratica sulla politica fiscale di Biden ruota esattamente intorno alla possibilità di eccesso di una cosa buona. Posto che una scelta espansiva è indispensabile in un contesto come l’attuale, esiste la possibilità che le misure proposte siano eccessive e pericolosamente inflazionistiche o, al contrario, dobbiamo pensare che non esiste mai un troppo di una cosa buona e che un pacchetto di spesa più è imponente e meglio è?

Larry Summers e Olivier Blachard sostengono la prima ipotesi. Si tratta dei due esponenti più autorevoli e influenti del mainstream globale (clintoniano il primo e punta di diamante del potente Peterson Institute il secondo) che fino a ieri si sono spesi per promuovere politiche espansive, sostenendo in particolare che, in un mondo di tassi a zero, i governi che si indebitano per investimenti che abbiano un ritorno di crescita anche modesto non vanno ad aumentare il rapporto debito/Pil ma lo vanno al contrario ad abbassare.

Colpisce anche per questo vederli adesso molto critici verso il pacchetto prevedibilmente da un trilione e mezzo che fra due mesi verrà approvato dal Congresso. Le misure fiscali prese per mitigare la crisi del 2008, dice Summers, furono metà del necessario, ma questa volta siamo a ben cinque volte l’output gap creato dalla pandemia. Se a questo aggiungiamo il trilione in arrivo entro la fine dell’anno per le infrastrutture e i risparmi elevati delle famiglie formatisi per sussidi e minori spese durante il lockdown e pronti ora per essere spesi, il potenziale inflazionistico è evidente. L’economia americana non rischia di surriscaldarsi, dice Blanchard, rischia di prendere fuoco.

Esprime la sua preoccupazione anche Bill Dudley, fino a tempi recenti numero tre della Fed e democratico di ferro che nel 2019 aveva esortato la Fed a provocare una recessione per non fare rieleggere Trump. Per Dudley ci sono nove ragioni per temere un’inflazione vivace già nei prossimi mesi. Tra queste le più interessanti sono la rapidità della ripresa, la riduzione permanente di offerta nei settori colpiti dalla pandemia a fronte di una domanda che presto tornerà normale, le frizioni nel mercato del lavoro (un ristoratore che ha chiuso la sua attività non si riconverte facilmente il un progettista di turbine eoliche) e le aspettative di inflazione che continuano a crescere e possono esse stesse contribuire a fare salire i prezzi.

A difendere Biden intervengono Jason Furman e Austan Goolsbee, entrambi già a capo dei consiglieri economici di Obama e su posizioni storicamente liberal ma non progressive. Gran parte degli stimoli, dicono, saranno una tantum, a partire dal famoso assegno di 1400 dollari che arriverà a ogni americano che abbia un reddito inferiore ai 75mila dollari. Se anche avremo un paio d’anni con una crescita del Pil nominale dell’8-9 per cento, fatto di crescita reale solo per metà e di inflazione per il resto, non sarà una tragedia, anzi.

Per completare il quadro del dibattito, non mancano democratici di area progressive come la Ocasio-Cortez ed economisti di area MMT che sostengono addirittura che il pacchetto di Biden è troppo piccolo e prevede molto poco per l’ambiente.

Che dire? Proviamo a fare qualche osservazione. La prima è che se il mondo ha deciso di premere sull’acceleratore finché non arriverà l’inflazione, questa arriverà per forza. Se non arriverà, infatti, si alzerà subito qualcuno a dire che si può accelerare ancora di più e questo qualcuno verrà insediato al potere dagli elettori al posto di chi si accontenta di una crescita più bassa.

In particolare, i democratici hanno un anno e mezzo per preparare le elezioni di mid-term del novembre 2022 e per evitare di perdere i due rami del Congresso. La strategia obbligata, a parte quella di dividere i repubblicani tra trumpiani e antitrumpiani in lotta fra loro, è quella di fare crescere l’economia il più possibile e il prima possibile, costi quel che costi.

La seconda osservazione è che tutti i ragionamenti del dibattito in corso tra i democratici e nel mercato si basano sulla nozione di output gap, che a sua volta si basa su quella di Pil potenziale non inflazionistico. E qui l’economia entra a vele spiegate nell’oceano della metafisica, perché il Pil potenziale, quel mondo meraviglioso in cui ci sono pochi disoccupati, tanta crescita e inflazione bassa e stabile ognuno lo può definire e calcolare come vuole. Calcolandolo alla maniera tradizionale, sulle serie storiche, si tende a sottostimarlo anche drammaticamente, come è stato fatto nel decennio scorso. Sottostimare la crescita potenziale significa crescere meno di quello che si potrebbe perché si teme un’inflazione che invece non arriva.

Summers e Blanchard, consapevoli dei limiti del concetto di output gap, stanno coi piedi per terra e, senza tanti modelli, si limitano a prendere il Pil pre-Covid e da questo calcolano dove saremmo oggi se non ci fosse stato Covid. La differenza è l’output gap, il buco, che il pacchetto di Biden riempie non una ma cinque volte.

Il problema è però che l’output gap andrebbe calcolato su scala globale. In un mondo ancora abbastanza aperto al commercio, infatti, l’eccesso di domanda generato dalla spinta fiscale può essere soddisfatto dall’estero senza inflazione finché all’estero rimane un eccesso di offerta. Detto in altri termini, una buona parte dello stimolo americano finirà in Europa e in Asia, dove ci sono ancora ampie risorse inutilizzate che possono essere messe al lavoro senza creare inflazione.

Se inflazione in ogni caso ci sarà, terza osservazione, non aspettiamoci, come invece fa Summers, che la Fed reagisca più di tanto, riducendo il Qe e alzando i tassi. Ricordiamo che, tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo, scadono le prime tre cariche nella Fed, incluso Powell. Se vorranno essere riconfermati nelle loro posizioni, Powell, Clarida e Quarles dovranno mostrarsi fin da subito perfettamente allineati con la linea di ripresa a tutti i costi (e già lo sono). Se mostreranno anche la più piccola velleità di non fare finta di niente quando arriverà l’inflazione, la Yellen, dal Tesoro, li sostituirà con colombe ancora più docili.

Quarta e ultima osservazione, se un giorno ci si deciderà di frenare un’economia surriscaldata, lo si farà più con le tasse che con i tassi. É lo spirito del tempo, anche in questo allineato con la MMT che sostiene che le tasse non sono lo strumento per pagare le spese (che si possono benissimo pagare stampando moneta) ma un mezzo per contrastare l’eccesso di domanda che produce inflazione.

Che conclusioni trarre per le scelte d’investimento?

In un mondo spinto a crescere a tutti i costi e con un’inflazione che salirà (tanto o poco lo vedremo) i bond lunghi governativi daranno rendimenti negativi in termini reali e, probabilmente, anche nominali. Solo i Btp, per fattori specifici, daranno un ritorno positivo. I crediti daranno ancora un ritorno positivo per la compressione dello spread ma dovranno remare controcorrente. Le azioni continueranno ad andare bene finché l’inflazione resterà sotto il 3%. Sopra il 3 ci sarà volatilità, ma la caratteristica di asset reale dell’azionario lo farà preferire alle alternative. Molto bene andranno le materie prime, avviate verso un rialzo secolare.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos

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