Dove dirigere gli investimenti in vista dell’aumento dell’inflazione

“Una delle chiavi del successo della ripresa dei mercati finanziari, dopo lo shock di marzo, è stata senz’altro la risposta immediata e ‘potente’ delle banche centrali. Possiamo vederne l’impatto nell’espansione dei loro bilanci: la crescita di M2 negli Stati Uniti nel 2020 è stata del 25%, nel Regno Unito del 13% e nell’Area euro del 12%. Come ci insegnano i testi di economia monetaria, esiste una stretta relazione tra la crescita dell’aggregato monetario e l’inflazione, nel lungo periodo. Se a questo aggiungiamo l’esplicito cambio di retorica da parte della Fed, che tollererà oscillazioni dell’indice dei prezzi anche oltre il 2%, possiamo intuire che l’inflazione giocherà un ruolo fondamentale nella gestione dell’enorme quantità di debito che tutte le maggiori economie stanno accumulando a causa della pandemia”. Lo afferma Paolo Mauri Brusa, gestore del team Multi Asset Italia di Gam (Italia) Sgr. Di seguito la sua analisi.

Il rapporto debito su Pil sta aumentando globalmente: le stime del Fmi dicono che a fine 2021 raggiungerà il 125% negli Stati Uniti, il 260% in Giappone, il 100% nell’Area euro. Ci sono tre modi in cui i governi possono ridurre lo stock di debito emesso: il default, strada ovviamente non auspicabile; un aumento del surplus di bilancio, che richiede politiche di austerity che riducano il lato della spesa senza pregiudicare la crescita futura; o lasciare che sia l’inflazione a erodere il valore reale del debito. Quest’ultima opzione è quella che politicamente presenta meno effetti collaterali, anche se da sola non può certo bastare. I “dot plot” della Fed ci dicono che non ci saranno rialzi dei tassi prima del 2023. E’ possibile quindi che, ben prima di quella data, l’inflazione sarà oltre il target del 2%. Come proteggere quindi i portafogli in uno scenario simile?

Il primo e più ovvio strumento, per chi investe in obbligazioni, è quello di convertire una parte delle emissioni governative “nominali” in quelle “inflation linked”. Se restiamo sulle curve euro, il carry che se ne ricava sarà molto ridotto, ma al momento l’inflazione implicita nei prezzi resta contenuta (nell’intorno del 1%). Un’alternativa interessante per un investitore un po’ più sofisticato può essere rappresentata dalle emissioni in valute legate alle materie prime, come corona norvegese o dollaro australiano. Essendo correlate positivamente al ciclo economico, non sono certo un buon diversificatore nelle fasi di mercato orso, ma in un contesto di graduale aumento dell’inflazione tendono a rafforzarsi.

Passando alla componente azionaria, anche in questo caso andranno privilegiati i settori ciclici: energetici, materie di base e finanziari, che beneficeranno dell’aumento dei prezzi delle materie prime e delle aspettative di rialzo dei tassi d’interesse. Per chi ne ha la possibilità, ovviamente l’investimento in strumenti legati alle commodity (petrolio, metalli industriali e preziosi) consente di incorporare nel portafoglio una componente fondamentale dell’inflazione. Infine il real estate, che però nel medio termine ha un legame con la crescita dei prezzi più incerto: da un lato l’inflazione viene incorporata nei prezzi degli immobili; dall’altro, però, la traiettoria dei tassi d’interesse al rialzo tende a deprimere il mercato immobiliare sul lungo periodo, incidendo sulle capacità di finanziamento degli acquirenti e rendendo i rendimenti da locazione meno competitivi rispetto a quello delle obbligazioni, per loro natura molto più liquide.

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