Dogma asset allocation. Un mito?

Premessa
Gli ultimi 25 anni hanno visto crescere l’importanza dell’asset allocation all’interno dei processi di investimento e di consulenza verso la clientela istituzionale e affluent/retail e molto si è scritto e detto sul corretto approccio da seguire nella costruzione di un portafoglio di investimento. Infatti, il “processo di asset allocation” è stato il dogma da seguire per tutti coloro che hanno sposato, consigliato o imposto un metodo di tipo top down nell’implementazione di portafogli diversificati che tenessero conto dell’orizzonte temporale e della propensione al rischio del cliente.

L’asset allocation

L’importanza riconosciuta all’asset allocation ha portato sia accademici che practitioneer a sviluppare ulteriormente alcuni aspetti essenziali del processo quali, ad esempio, la distinzione tra asset allocation tattica e strategica, il miglioramento del trade off rischio/rendimento all’aumentare dell’orizzonte temporale di investimento, l’inclusione e l’esplorazione di nuove asset class nel tempo (come valute e commodities). Tali evoluzioni applicative hanno avuto ripercussioni anche sul modo di investire di molti investitori istituzionali, come i fondi pensione o gli alternative investments funds, con anche effetti distorsivi non indifferenti sulla trasparenza e sul corretto pricing di alcune asset class, come si è recentemente verificato per alcune commodities (il petrolio ne è stato un esempio nel 2008, oggi forse ne sono testimoni qualche valuta e l’oro). Però, nonostante l’importanza che la comunità finanziaria ha continuato ad attribuire all’asset allocation, nel tempo sono stati diversi i segnali che hanno minato le basi su cui poggia, almeno nella sua concezione classica e su come abitualmente viene applicata.

Le nuove frontiere

Se vogliamo, il “faro” rilevatore è stato il fallimento dello Yale style, cioè il nuovo modo di concepire l’asset allocation anche per gli investitori istituzionali più prudenti e con orizzonte temporale più lungo (fondi pensione) che si fonda sull’ampliamento dell’universo investibile ad altre asset class alternative. Ma che qualcosa non funzionasse nell’approccio classico all’asset allocation gli operatori lo hanno intuito anche nell’esaminare la dinamica day by day di molte asset class specialmente in fasi di stress di mercato con il cosiddetto fenomeno della volatility breakdown, cioè il tendere a 1 della correlazione media tra le asset class stesse. Proprio in relazione a tali problemi, recentemente sono emerse altre interpretazioni relative all’approccio dinamico all’asset allocation, con proposte più o meno rivoluzionarie. Oramai si parla di “volatilità come asset class”, mentre la nuova frontiera è quella delle asset class per fonti di rischio al quale viene esposto il cliente, con la conseguenza che nella costruzione di un portafoglio si dovrà valutare e misurare l’esposizione al rischio tasso, valuta, inflazione e altro.

Comunque, la domanda interessante da porsi è perché l’asset allocation è diventata così importante nell’ambito del processo di investimento. La risposta, purtroppo, sta nell’errata interpretazione di uno studio del 1986 a opera di Brinson, Hood e Beebower (in sintesi, Bhb) pubblicato sul Financial Analyst Journal, nel quale i tre autori hanno cercato di determinare quanto fosse importante la componente asset allocation nello spiegare i rendimenti di un portafoglio, mettendo in relazione i rendimenti totali di un campione di fondi rispetto al rendimento dei relativi benchmark di riferimento. La conclusione è stata che il 93,6% della variazione dei rendimenti dei fondi nel tempo è dovuta al mix gestionale dei fondi stessi, cioè all’asset allocation. La comunità finanziaria, a fronte di questi risultati ha risposto con una concentrazione notevole di risorse e di tempo nel migliorare gli approcci gestionali orientati e basati su un processo dinamico e continuo di asset allocation, visto che gran parte della performance deriva da ciò.

Alcuni errori

Però, due sono stati gli errori commessi nel valutare i risultati del trio Bhb. Innanzitutto, come hanno dimostrato ampiamente Ibbotson e Kaplan nel 2000, uno degli errori commessi da Bhb è stato quello di non considerare il fatto che gran parte della variazione dei rendimenti dei fondi deriva dal fatto che è il mercato che varia e non il policy mix (asset allocation) del fondo. Per il semplice fatto di essere investiti in asset class, questo comporta una variazione dei rendimenti dei titoli. E questo ci porta al secondo errore, anche interpretativo, dei risultati di Bhb; infatti, una domanda che molti investitori si chiedono è “quale percentuale del rendimento del mio portafoglio deriva dalla politica di asset allocation?”.

Consideriamo che l’asset allocation in quanto tale espone il portafoglio al cosiddetto “beta risk”, nel senso che fa partecipare il fondo ai rendimenti del benchmark in quanto tale (beta return o rendimento da gestione passiva), mentre il resto del rendimento deriva dalla gestione attiva dei fondi o asset del portafoglio (alpha return). I rendimenti attivi aggregati di tutti gli investitori sommano, ovviamente, a zero, in quanto in media gli investitori non possono battere il mercato; pertanto, in media l’asset allocation e il suo beta return determina il 100% dei rendimenti in aggregato. Sorprendentemente, però, molti investitori hanno male interpretato i risultati di Bhb e hanno inteso che l’asset allocation policy spiegasse il 90% del livello dei rendimenti, quando invece il trio Bhb ha semplicemente spiegato la variazione dei rendimenti. Ma non solo, lo hanno fatto anche in modo sbagliato. Infatti, partiamo dal presupposto che il rendimento totale di un fondo o di un portafoglio può essere decomposto in tre componenti:

  • il rendimento del mercato
  • il rendimento dovuto all’asset allocation in eccesso al rendimento del mercato
  • il rendimento dalla gestione attiva

Brinson, Hood e Beebower hanno considerato il rendimento totale dei portafogli (o fondi), quindi mischiando insieme il rendimento del mercato con quello della gestione attiva e dell’asset allocation. Come si può correggere questo errore valutativo? La metodologia è stata spiegata e implementata da un recente articolo a opera di Xiong, Ibbotson, Idzorek e Peng apparso sul Financial Analyst Journal che ha totalmente smontato le ipotesi che hanno elevato a “mito” gestionale l’asset allocation.

Infatti, i tre autori nelle loro analisi decompongono i rendimenti dei fondi nelle tre componenti e vanno a depurare il beta return dell’asset allocation e l’alpha return della gestione attiva dal rendimento di mercato, utilizzando solo excess return. Inoltre, prendono in considerazione tre portafogli tipo per le loro analisi dal database Morningstar: uno per l’asset class azionaria statunitense, un fondo bilanciato e uno internazionale e utilizzano dati mensili per 10 anni di dati (dal maggio 1999 ad aprile 2009) calcolando il rendimento da asset class (beta return) dei tre fondi tipo nei confronti di diversi mix di indici di investimento (o composizione di essi) in modo da replicare diversi stili gestionali. Sono poi stati messi in relazione i rendimenti dei fondi (al netto dei rendimento di mercato) con i rendimenti dell’asset allocation policy (come sopra determinati) e della gestione attiva (come differenza residuale tra market return e beta return).

Il risultato è stato che l’asset allocation concorre in media a determinare non oltre il 20% della variazione dei rendimenti di un fondo, mentre un 10/15% è dovuto alla gestione attiva; più del 75% della variazione dei rendimenti è dovuta alle variazioni del mercato. Tali risultati sono stati ampiamente e statisticamente significativi e su diverse composizioni di asset allocation mix e per tutti e tre i portafogli tipo individuato dagli autori. Cosa questo comporterà sull’industria dell’asset management solo il tempo ce lo potrà dire, ma di certo non sarà più possibile nascondersi dietro una interpretazione sbagliata di uno studio di circa 25 anni fa, e tra l’altro, anche mal costruito. Questo non significa che è stata sancita la morte dell’asset allocation, ma sarà sicuramente necessaria una sua rilettura ed interpretazione e, infatti, le nuove proposte di considerare l’asset allocation per classe di rischio va in questa direzione. Così come dovrà essere necessariamente riqualificata la capacità dei gestori di generare alpha all’interno di un processo di asset allocation. Ma questa è, purtroppo, un’altra storia e con altre problematiche che sono bel lungi dall’essere risolte dall’industria dell’asset management in generale e italiana in particolare.

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