Tobin Tax, ritorna il tormentone

Il tormentone di tassare le transazioni finanziarie ritorna tutte le volte che ci sia un summit europeo. Come sempre avviene, l’onda emotiva prevale su ogni analisi razionale e così si perdono di vista sia la reale essenza del problema sia le conseguenze del provvedimento. In primo luogo sarà bene chiarire che non si tratta affatto della Tobin tax, bensì di una “comune” imposta di bollo o qualcosa di simile: in buona sostanza un metodo per spremere quattrini dal mercato per coprire la spesa e il debito pubblico.

Il signor Tobin, premio Nobel per l’economia del 1981, elaborò il progetto di una tassa sui cambi per gli investimenti in paesi in via di sviluppo per contrastare gli investimenti speculativi e di breve termine che potevano creare improvvise bolle e mettere in forte difficoltà le aree più povere del pianeta. Una proposta mirata a situazioni specifiche e limitata sia nel settore (i cambi) sia nel territorio di applicazione (aree in via di sviluppo, che allora venivano addirittura definite sottosviluppate), senza contare che è di almeno venti anni fa. È chiaro quindi che oggi non si propone affatto una Tobin tax, ma solo una tassa o imposta per finanziare le esauste finanze degli stati. Vediamone le conseguenze. Si parla di una tassa punitiva nei confronti di banche e finanzieri e altri “cattivi” speculatori che hanno distrutto le economie dei paesi ricchi. In realtà una tassa del genere non potrebbe che ricadere sugli investitori, sia quelli “buoni” sia quelli “cattivi”, ammesso che questa distinzione abbia senso. Non graverebbe sui bilanci delle banche, che peraltro sembrano già abbastanza esausti. Peraltro non è chiaro se una simile imposizione colpirebbe anche gli acquisti di titoli di stato e bancari, che in questo momento hanno un forte bisogno di essere collocati e comprati.

La Tobin tax avrebbe dovuto colpire le transazioni in cambi nelle valute dei paesi destinatari dell’investimento per far sì che gli investimenti non fossero di breve periodo, ma più stabili. Nella tassa proposta questo criterio non c’è, almeno a quel che si sa. Se si volesse colpire la speculazione di breve periodo, sarebbe sufficiente differenziare l’imposizione sui profitti in relazione alla durata dell’investimento, cosicché chi sottoscriva un Btp e lo porti fino a scadenza non avrebbe da pagare alcunché. Tassando ogni operazione quindi non si distingue il grano dal loglio e s’ingessa ulteriormente il sistema riducendone la liquidità. Se proprio si vuole colpire la speculazione , sarebbe meglio colpire le proposte di negoziazione a forte sospetto di manipolazione (quelle su piccoli quantitativi) oppure le operazioni intraday. In realtà nessuno propone ciò, ma solo un prelievo sugli affari conclusi. Secondo uno studio di una primaria società di consulenza (Ernst &Young) un simile sistema di tassazione colpirebbe in larga parte le transazioni che avvengono nel Regno Unito (che difatti è contrario) e in minima parte quelle che avvengono in Europa . Quindi il beneficio per il continente sarebbe di molto inferiore ai 57 miliardi strombazzati.

Inoltre è forte il rischio che molte attività o anche semplicemente le singole operazioni si spostino in territori fiscalmente accoglienti determinando non solo un mancato introito per il fisco, ma soprattutto la riduzione di attività e posti di lavoro, con una perdita complessiva stimata in circa 116 miliardi. In effetti molti uffici e sale operative si trasferirebbero armi e bagagli negli Usa o in Asia (che farebbero loro ponti d’oro), chiudendo le proprie filiali in Europa. La punizione (ammesso che un’imposta debba avere carattere punitivo) ricadrebbe su tutto il sistema e come sempre a pagare il prezzo maggiore sarebbero le fasce deboli (per intenderci gli extracomunitari che puliscono gli uffici e in genere quanti forniscono servizi), mentre i tanto vituperati banchieri e trader non farebbero altro che trasferirsi armi e bagagli nei paesi che li volessero accogliere, con reciproco profitto.

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