L’errore politico del governo tecnico
Gli esteri non investono in Italia non certo per l’articolo 18 ma per le infiltrazioni della malavita organizzata, per la politica e la giustizia che non funzionano, per la giungla contrattuale e soprattutto per l’elevato costo del lavoro. Se il governo voleva davvero dare una mano al Paese doveva intervenire su questi punti, non andare a infilarsi in un labirinto senza uscita e senza il bisogno di infilarcisi. Forse super Mario l’avrà fatto perché si crede invincibile?
Tutto ci voleva per risalire la china, fuorché questo “errore politico” del governo dei tecnici, che si tenta di rimediare presentando al Parlamento un disegno di legge “salvo intese” e non un decreto legge. Il professor Monti dovrebbe spiegare perché, nel riformulare l’articolo 18, anziché riferirsi al “modello tedesco”, ha voluto essere più “liberista” della Germania, che lascia al giudice la possibilità di ordinare la reintegrazione del lavoratore licenziato ingiustamente per motivi economici.
Una simile impostazione, oltre che trovare un consenso diffuso nei partiti, avrebbe sicuramente messo in difficoltà la Cgil (se il suo obiettivo era davvero quello), con la sua ala più estrema (Fiom) e avrebbe avuto il pregio di fugare ogni alibi per chi vuole veramente modernizzare il mercato del lavoro, regolarizzare i precari e offrire nuove prospettive ai giovani. Può darsi che il governo Napolitano-Monti abbia voluto giocare un “ruolo politico” per dividere la sinistra, e in particolare il Partito democratico. Il risultato, invece, è stato che sono venuti alla luce tutti i limiti di un “governo tecnico”. Un Paese non si gestisce come fosse una società per azioni. L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi lo sa bene. La composizione degli interessi, amplificati dalla globalizzazione, richiede virtù che vanno ben al di là di quelle di un pur bravissimo capitano d’industria.
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