Le criticità dei mercati alla prova dell’intelligenza del rischio

L’idea di quest’articolo è nata dopo aver constatato l’impossibilità delle principali case di gestione di offrire analisi approfondite sulle variabili chiave per valutare lo scenario attuale, e l’incapacità del settore della consulenza finanziaria di presentare funzionali soluzioni di investimento al di fuori di un contesto di mercato rialzista.

THE BIG SHORT (2) – Prima dello scoppio della crisi immobiliare negli USA vi erano molteplici segnali anomali nei mercati (modalità nell’ottenimento e livello del leverage delle banche USA, rialzo dei valori immobiliari non coerenti con le dinamiche economiche e le serie storiche, ecc) che furono colti dai pochi in grado di non farsi influenzare dalla visione mainstream, come gli eclettici protagonisti del celebre libro The Big Short. A fronte delle rassicurazioni da parte delle principali case di gestione, basate in primis su utili in crescita, mantenimento delle politiche accomodanti delle banche centrali e riduzione del rischio politico in Europa, da diversi mesi numerosi gestori di boutique, prevalentemente global macro, hanno sottolineato le crescenti criticità presenti nei mercati.

UNA NUOVA INTELLIGENZA – L’intelligenza del rischio, ovvero la capacità di stimare in modo accurato le probabilità, di valutare i limiti delle nostre conoscenze, di essere cauti quando non si sa molto e sicuri quando si è più informati, rappresenta la forma di intelligenza più importante per coloro che operano nei mercati finanziari. Secondo l’approccio tipico dell’intelligenza del rischio analizziamo gli aspetti di maggiore rilevanza.

QUELLO CHE SAPPIAMO DI SAPERE – Le valutazioni dell’azionario USA sono estremamente care. Si trova al massimo storico il gap tra il Real S&P Price Index ed il Real S&P Earnings calcolato da Shiller. I rialzi del mercato sono stati guidati prevalentemente dai buy back societari, finanziati con il ricorso all’indebitamento. Secondo una ricerca di Credit Suisse dal 2009 ad oggi è negativo il saldo degli investimenti in azioni USA da parte di famiglie ed investitori istituzionali. BoFAML evidenzia come siano necessarie oltre 100 ore di lavoro per acquistare un’unità dello S&P (al pari di quanto registrato nel 1999), rispetto alle 20 del 1980 ed alla circa 40 ore del 1990 e del 2009. Siamo nella fase finale del ciclo economico e il sistema appare fragile ad un possibile aumento dei tassi. I cicli economici sono definiti in primo luogo dal processo del credito e di conseguenza l’aumento dell’indebitamento mondiale ha favorito la crescita. Il fantomatico processo di deleveraging non trova riscontro nei numeri. Citibank ha calcolato che l’indebitamento del settore non finanziario, rapportato al PIL, è al massimo storico per Eurozona, UK, USA, Australia ed in prossimità dei massimi per il Giappone. Il Total Consumer Credit Owned and Securized Oustanding, calcolato dal Consiglio dei Governatori del Federal Reserve System, rispetto al 2007 è cresciuto del 40%, al pari del credito bancario erogato dalle principali banche statunitensi. Come rilevato da Wells Fargo la durata dell’attuale rialzo dello S&P 500, oltre 100 mesi, è seconda solo al periodo 1990-2000, mentre l’entità dell’incremento è la quarta maggiore della storia. I dati economici iniziano a mostrare le difficoltà dei consumatori statunitensi. Ad esempio le vendite di auto negli USA, che pesano per circa il 20% della spesa dei consumatori, a luglio hanno messo a segno il mese peggiore dal 2010, e le scorte di veicoli sono ai massimi dal 2009.

QUELLO CHE SAPPIAMO DI NON SAPERE – Risulta evidente la correlazione tra il bilancio della Fed e lo S&P 500 dal 2009 al 2016, per questo è ipotizzabile che una riduzione degli asset della Fed possa danneggiare i corsi azionari, tuttavia non sono chiare le tempistiche né le modalità che verranno adottate dalle banche centrali per la dismissione degli attivi. Non conosciamo l’effettiva affidabilità creditizia di molteplici tipologie di debitori a fronte di un processo di normalizzazione dei tassi. Secondo uno studio della Bundesbank, dal 2008 al 2016 lo Stato italiano ha risparmiato circa 195 miliardi di euro (11,63% del PIL) sulla spesa per interessi. A fronte del costante deficit del nostro paese sarebbe fondamentale capire quale aspetto potrebbe bilanciare i maggiori oneri del debito (solidità del processo di crescita, capacità di imprese e famiglie di assorbire un aumento della tassazione, fattibilità di riduzione della spesa pubblica, possibilità di trovare nuovi finanziatori del debito pubblico, ecc). Negli USA la percentuale di credito subprime erogato ai consumatori è circa il 22%, con punte al 27% nel settore auto. Nel 2007 era circa il 20%. Non sappiamo quale ripercussioni avrebbero, su tale categoria di debitori, un aumento dei tassi o una diminuzione del livello occupazione.

QUELLO CHE NON SAPPIAMO DI NON SAPERE – Ovvero i punti sui quali non si sono effettuate adeguate analisi. Come sottolineato da Annette Vissing-Jorgensen e Arvind Krishnamurthy, le crisi finanziarie sono precedute dal tentativo del settore bancario di produrre attività sicure quando l’offerta di debito pubblico a breve termine è carente o non attrattiva; quando questo tentativo fallisce si produce una crisi finanziaria. Il basso livello dei tassi ha portato alla diffusione di numerosi strumenti illiquidi, in grado di offrire remunerazioni anche di 400/500pb rispetto al risk free, acquistati in Europa soprattutto dagli investitori istituzionali tedeschi, tuttavia non sappiamo la reale esposizione a questi strumenti né la valorizzazione degli stessi a bilancio. Le banche centrali stanno lentamente perdendo credibilità e questo elemento avrebbe ripercussioni difficili da prevedere. Sono in continuo aumento le dichiarazioni contraddittorie da parte dei policy maker USA, con il risultato che la Fed indica 7 rialzi di 25pb in 2 anni, mentre le aspettative del mercato si fermano a 2. Inoltre la scadenza del mandato dei governatori (2018 per Yellen, 2019 per Draghi) rappresenta un’ulteriore fonte di incertezza.

 

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