Mercati, correzione o cambio di trend?

Investitori istituzionali e retail a confronto – Numerose analisi hanno evidenziato come le valutazioni dei mercati finanziari siano ai massimi storici, un elemento che risulta ben noto agli investitori istituzionali (il bear market indicator di Goldman Sachs è ai valori più alti degli ultimi 40 anni), meno ai retail. I primi tuttavia, per cercare di garantire un rendimento e giustificare l’applicazione delle commissioni di gestione, tendono a non suggerire una drastica riduzione del rischio e promuovono sempre più lo sfruttamento del premio di illiquidità, ponendo le basi perché parte delle soluzioni di private debt replichino lo scenario degli Abs nel 2008. I retail, al contrario, non hanno la percezione sul livello raggiunto dalle valutazioni, sono rimasti ancorati alla concezione che l’asset allocation debba essere effettuata in termini di asset class e non di strategie di investimento ed in particolare i risparmiatori italiani faticano a comprendere che l’economia mondiale sia a fine ciclo, a seguito degli irrisori tassi di crescita registrati dal nostro Paese negli ultimi anni.

Valutazioni non giustificate dai bassi tassi di interesse – In “The Best Investment Writing – Volume 2”, edito da Harriman House, Kevin Smith, Otavio Costa e Nils Jenson di Crescat Capital hanno confrontato i valori del CAPE sull’azionario statunitense calcolato da Shiller con il livello dei tassi di interesse, giungendo alla conclusione che l’equity USA dovrebbe correggere di circa il 50% per tornare in prossimità delle valutazioni storiche, a fronte dell’attuale livello dei tassi sul Treasury a 10 anni. L’entità della correzione rimane similare se l’analisi viene effettuata sostituendo l’inflazione CPI al rendimento del Treasury.

La finzione del deleveraging – Si è concordi nel ritenere che una delle componenti principali della crisi finanziaria del 2008 fosse dovuta all’eccessivo livello di indebitamento, tuttavia i dati riferiti al mercato statunitense mostrano che il leverage complessivo sia ulteriormente cresciuto e si posizioni sui massimi storici. I cicli economici sono guidati dal credito, come desumibile dalla correlazione tra leverage ed indice S&P 500. Risulta facile ipotizzare che tale correlazione risulterà immutata anche in futuro e che in base ai nuovi massimi raggiunti il ciclo del credito si possa invertire, con ripercussioni negative per le principali asset class.

Il mercato non remunera i rischi – Uno studio pubblicato dall’investment bank statunitense Piper Jaffray chiarisce ulteriormente come la crescita del debito si concluda con periodi di recessione ed evidenzia come la correlazione presente tra spread dei bond high yield e livello indebitamento complessivo delle imprese non finanziarie sia venuta meno in corrispondenza delle manovre espansive delle banche centrali. Lo spread attuale, pari a circa il 4%, era presente tra il 2005 ed il 2007 con un livello di indebitamento su Pil del 39%, mentre oggi l’indebitamento è di oltre il 45%. Questo nonostante il peso dei bond high yield sia passato da circa il 15% nel 2003 all’attuale 30% del complessivo mercato obbligazionario mondiale e le emissioni ad alto rendimento rappresentino quasi il 45% dei nuovi collocamenti, rispetto al 12% – 15% dei precedenti cicli speculativi del 2000 e del 2007, come ricorda Maurizio Novelli, Portfolio Manager del Lemanik Global Strategy Fund. Anche il comparto azionario non sta adeguatamente remunerando il rischio. Basandosi sull’andamento dell’indice S&P 500 tra il 1937 ed il 2017, con il rapporto price/earning pari a circa 21, a 10 anni si avrebbero rendimenti ampiamente sotto la media storica.

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