L’azionario Usa è sopravvalutato?

L’azionario Usa è sopravvalutato? La domanda è ovviamente retorica dal momento che la risposta cambia a seconda del panorama preso in considerazione. Guardando a Wall Street, però, la domanda diventa particolarmente insidiosa dal momento che gli Usa rappresenterebbero la locomotiva della finanza mondiale, o almeno quell’unica realtà la cui crescita, potenzialmente stabile, dovrebbe trainare a sua volta quella mondiale.

Tra Cina e Usa Purtroppo da più parti si inizia a sospettare addirittura il contrario. In realtà il vero “divoratore” di risorse e quindi il consumatore globale sarebbe la Cina. A sua volta in rallentamento innegabile. Gli Usa stanno sempre più vivendo di rendita ovvero viaggiano ai massimi storici su basi di ottimismo dato dalle azioni della Federal Reserve e da una serie di strategie di fusioni e riacquisti delle azioni che hanno portato il vantaggio (unico) di rivalutare l’azionario senza sfruttare un rafforzamento dei fondamentali. E i dati macro, sempre più deludenti, adesso fanno riflettere.

L’azionario è sopravvalutato. Sempre Anche perchè, volendo usare tutti i parametri possibili, la sopravvalutazione dell’equity risulta essere un fattore presente sempre più frequentemente: guardando alla storia, la memoria corre alla stessa euforia che anticipò il crollo del 1929 e della bolla delle dotcom, tanto che la stessa Yellen, il cui ottimismo è addirittura irritante, ha parlato di “azionario un po’ caro” pur escludendo la presenza di bolle.
Una dichiarazione praticamente prevedibile visto che sicuramente il numero no della Fed non avrebbe mai potuto ammettere la presenza di una speculazione forsennata creata dalle stesse politiche che sia lei ma soprattutto il suo predecessore non solo hanno spinto, ma che hanno caldeggiato in prima persona.
Naturalmente la scelta non era molto difficile da fare visto che a suo tempo, quando scoppiò il caos post Lehman e la crisi del 2009, c’era poco da fare che intervenire.

Ad ogni modo è impossibile negare che una sopravvalutazione c’è, come confermato dal premio Nobel Yale Robert Shiller che ha dichiarato: “Secondo l’indice da me elaborato con John Campbell, ora ad Harvard, 25 anni fa attualmente siamo intorno a 27 uno standard piuttosto alto per l’azionario Usa gli unici precedenti storici si sono avuti nel 1929, 2000 e 2007, tutti momenti che hanno preceduto crolli del mercato”.

A fargli eco anche Emmanuel Bourdeix, Head of Seeyond e Co-CIO Natixis Asset Management che proprio sul CAPE non ha dubbi: prezzi che aumentano troppo velocemente e in maniera discronica rispetto agli utili societari, continuando su questa strada lo sviluppo inevitabile sarà quello dell’entrata in un territorio di bolla.

Alla base di tutto i tassi di interessi che hanno iniziato ad essere troppo bassi già dal 2009 e che hanno proseguito su questa strada per un periodo troppo lungo. La prima e ovvia conseguenza, oltre all’aumento del credito facile, è anche lo sconfinamento per gli indici, in territori inesplorati con conseguenza perdita dei parametri di riferimento e, quindi, di aumento dell’incertezza e della volatilità.

Gli altri fattori Un altro segnale di pericolo che molti analisti stanno prendendo in considerazione solo ora è il drammatico aumento del margin debt cioè il denaro che gli investitori stanno prendendo a prestito per operare sul settore finanziario e sull’azionario in particolare, cosa che favorisce l’aumento della quotazione stessa la quale stimola nuovamente gli investitori a cavalcare quella che è a tutti gli effetti l’onda della speculazione.
Si tratta di un ciclo che potrebbe essere definito auto-rinforzante. Peccato che in questo caso, con dati macro che a volte (sempre più spesso) deludono, si tratta di un processo che si solidifica ma andando verso il basso, cioè verso la bolla.Una delle cose che sta guidando questa crisi attuale è il fatto che la bilancia commerciale Usa continua a peggiorare.
In altre parole, la differenza tra quanto Washington compra, rispetto a quanto riesce a vendere, è in crescita: nello specifico nel primo trimestre, le importazioni sono aumentate del 5,6 per cento, mentre le esportazioni sono scese del 7,6%.
Un deficit che cresce significa anche perdita di posti di lavoro.

Il punto E la preoccupazione di fondo è proprio questa: se l’economia statunitense fosse in piena salute non ci sarebbero problemi, purtroppo quella che si registra tra le mura domestiche dello zio Sam non è altro che una tiepida ripresa assolutamente minima se confrontata alle energie che sono state messe in campo per far riavviare il motore.
La verità è che i mercati finanziari sono diventati completamente avulsi dalla realtà economica anche volendoli considerare anticipatori dei trend: in questo momento, i profitti aziendali delle Corporate Usa sono in calo e le esportazioni anche, così come il Pil USA ridottosi in maniera rilevante nel primo trimestre (-0,7%), riduzione attribuita (nuovamente) al maltempo, per un prodotto interno lordo che continua ad essere una spada di Damocle che pende sulla testa di Washington e, con lei, di tutto il mondo.
Purtroppo non sorretta nemmeno dalla stampella cinese con Pechino anch’essa in bolla. Ma questa è un’altra storia…
a cura di Trend Online

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