Mps, vietato vendere ma il titolo crolla. Ecco i perchè

di Pier Paolo Soldaini, XTraderNet

E’ ormai noto che con le delibere n°19488 del 18 gennaio 2016 e n°19489 del 19 gennaio 2016, la CONSOB ha deciso di estendere le restrizioni in materia di vendita allo scoperto sul titolo Monte dei Paschi. Il divieto riguarda le operazioni di vendita allo scoperto garantite dalla disponibilità del titolo stesso al momento dell’ordine poichè, come ben tutti sappiamo, le vendite allo scoperto senza la disponibilità del titolo (cosiddetto Naked Short Selling) sono già vietate per tutti i titoli azionari dallo scorso novembre 2012. Nel comunicato dell’Istituto si legge che le misure sono state adottate in relazione al Regolamento comunitario n. 236/2012 in materia di “Short Selling“, considerando che la variazione del prezzo del titolo Monte dei Paschi, nella seduta del 18 gennaio, è stata superiore al -10%.

Da tale provvedimento, è bene ricordarlo, sono esenti tutti quegli operatori che rientrano nelle categorie di market maker, liquidity provider e specialist, come specificato al punto 2 della delibera stessa. Il blocco delle vendite allo scoperto su MPS era già scattato la scorsa settimana, nella seduta di martedì 12 gennaio 2016.

Ma il divieto di vendita allo scoperto può essere ritenuto una misura veramente efficace nel calmierare la variabilità dei corsi azionari e, di conseguenza, nel ridurre la percezione del rischio da parte degli investitori? La risposta a questa domanda è NO. Infatti vietare le vendite allo scoperto e minacciare di indagare (indagare!?!) sui venditori di un titolo (in questo caso MPS), non solo risulta risibile in un contesto di presunto libero mercato (e sottolineo presunto), ma soprattutto contribuisce a creare delle inefficienze di natura tecnica nel mercato stesso. Tali inefficienze sortiscono effetti esattamente opposti a quelli che si vorrebbero ottenere. Cerchiamo di capire perché.

Cominceremo con l’osservare che il divieto di vendita allo scoperto genera effetti negativi innanzitutto sulla liquidità del mercato, quindi sull’efficienza informativa della variabile prezzo, e ancora sulla media dei rendimenti azionari.

Liquidità del mercato. E’ facilmente intuibile che in una situazione di mercato decisamente negativa, vuoi per motivazioni di natura prettamente tecnica, vuoi per motivazioni di natura fondamentale (micro e macroeconomica), una buona parte degli operatori sarà orientata ad aprire posizioni ribassiste. Se a questi operatori si impedisce di assumere posizioni in coerenza con le proprie aspettative essi si troveranno di fronte ad una duplice scelta: quella di astenersi dall’operare; oppure, volendo necessariamente prendere parte al mercato, quella di operare esclusivamente al rialzo. Considerando che, presumibilimente, gli operatori in questione si orienteranno prevalentemente verso la prima scelta, si avrà una riduzione nella quantità delle azioni in vendita, e conseguente contrazione nei volumi di scambio, associate ad un allargamento dei differenziali di prezzo (bid-ask) sulle proposte di negoziazione, che provocheranno un aumento nella volatilità dei corsi azionari. Non solo.

L’investitore che aveva già in carico i titoli oggetto del divieto percepirà, assieme ad un più alto grado di rischio, una difficoltà maggiore nella liquidabilità delle proprie posizioni. Questa percezione distorta del mercato potrebbe certamente indurlo a vendere, amplificando ulteriormente la volatilità. Anche qualora l’operatore ribassista decidesse di partecipare al mercato assumendo posizioni rialziste, dovrebbe farlo necessariamente, considerata la sua view di fondo negativa, in un’ottica speculativa di brevissimo termine direttamente correlata ad un più alto grado di rischio. Questa situazione lo porterebbe a liquidare velocemente gli eventuali profitti realizzati, un modus operandi che avrebbe ulteriori ripercussioni sulla volatilità.

Per quel che concerne l’efficienza informativa del prezzo, si osserverà che gli operatori ribassisti, che fanno ricorso alla vendita allo scoperto, sono presumibilmente coloro che hanno un più alto grado di preparazione tecnica in materia di mercati finanziari, e che quindi agiscono sulla base di un’informazione qualitativamente e quantitativamente più significativa. La loro assenza dal mercato, o comunque la loro partecipazione forzata all’acquisto, porterebbe nel lungo periodo ad una fisiologica sopravvalutazione dei titoli, che andrebbe giocoforza a peggiorarne il rendimento medio.

Le conclusioni alle quali si è giunti attraverso questa breve disamina puramente speculativa, portano ad affermare che l’introduzione del divieto di vendita allo scoperto condurrebbe in realtà alla realizzazione di obiettivi esattamente opposti rispetto a quelli che si sarebbero voluti perseguire, e cioè all’aumento della volatilità, alla riduzione dei volumi di scambio e ad un rischio di mercato percepito come mediamente più alto. Sarà facile obiettare che queste stesse conclusioni possano valere dal punto di vista meramente teorico, e che la realtà e il funzionamento dei mercati è altra cosa. L’evidenza empirica però dimostra che il divieto non ha sortito alcun effetto positivo, anzi. Il titolo MPS ha infatti accusato una flessione superiore al -14% nella seduta del 19 gennaio e un ulteriore calo del -22,2% in quella al 20 gennaio 2016.

Allora, se questo non bastasse, facciamo un salto indietro e andiamo ad effettuare qualche altra rilevazione empirica per verificare la plausibilità della nostra tesi. Torniamo al 2011, in un periodo di turbolenza particolare per il mercato azionario italiano, quando il rendimento sul BTP decennale arrivò a sfiorare l’8% in un’asta e i valori del paniere Ftse Mib passarono dai 23000 ai 13000 punti in soli sette mesi. Anche allora la CONSOB, con la delibera n°17902 introdusse il divieto di vendita allo scoperto su gran parte dei titoli del listino, ma la volatilità (misurata a 90 giorni) dell’indice Ftse MIB non solo non si ridusse ma addirittura aumentò del 50%, passando dal 30% circa di agosto 2011 al 45,7% di novembre 2011. I volumi di scambio sul derivato dell’indice, il future MIB con scadenza dicembre 2011, si ridussero drasticamente ridotti dai circa 650mila contratti del mese di agosto ai 400mila di novembre.

Non andò diversamente nel 2008, anzi andò peggio. Anche allora la CONSOB decise di intervenire contro le vendite allo scoperto con la delibera n°16645 del 1° ottobre, che fu prorogata più volte fino alla fine di febbraio 2009, e poi ancora fino a maggio. Il risultato di questo provvedimento fu una crescita della volatilità dell’indice dal 27,9% di ottobre 2008 a circa il 56% di fine gennaio 2009, con una perdita del mercato azionario che arrivò a sfiorare il 50% nei primi giorni di marzo 2009. In seguito alla successiva revoca del provvedimento i corsi azionari ricominciarono a salire dal 9 marzo 2009 fino all’ottobre dello stesso anno, con un raddoppiamento del valore dell’indice Ftse MIB a fronte di una volatilità in contrazione dal 46% al 22% nello stesso periodo.

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