A cura di Nicolas Forest, Global Head of Fixed Income, Candriam Investors Group
A dicembre, dopo 7 anni di politica iperespansiva, la Fed ha timidamente rivisto al rialzo i suoi tassi ufficiali di 25 punti, dopo averlo annunciato ben un anno fa. Dopo un mese, le previsioni di rialzo dei tassi sono sfumate, le borse hanno ceduto il 10% e resiste soltanto l’anticipazione dei mercati di un aumento di 25 punti base – nel dicembre 2016 – dei Future sui Fed Funds. Eppure, in un arco storico di oltre 30 anni, la Fed è intervenuta solamente una volta per aumentare i tassi durante una fase di contrazione. Se i mercati avessero ragione, vivremmo una situazione inedita che farebbe pensare a un errore della Fed, nell’aumentare i tassi, e ad un rischio di rallentamento dell’economia USA superiore al previsto. Considerando poi il quadro economico attuale degli Stati Uniti (tasso di crescita e d’inflazione), qualunque regola di Taylor punta su un tasso obiettivo del 3%. Una conferma giunge anche dai membri della Fed, che anticipano un tasso di riferimento a lungo termine del 3,50% (e dell’1,37% a fine 2016). Eppure i mercati resi euforici dal quantitative easing non riescono, dopo quasi dieci anni, a capacitarsi. Siamo onesti: a nessuno piace assistere alla fine di una bella storia.
In Europa, la conferenza stampa di dicembre 2015 di Mario Draghi ha lasciato l’amaro in bocca a più di un investitore. Mentre molti si aspettavano un’intensificazione del ritmo di acquisti di titoli e una forte diminuzione del suo tasso sui depositi, la BCE ha contenuto al minimo gli interventi, come se i falchi avessero recuperato terreno. Un mese dopo il tono è mutato e il presidente dell’istituto europeo ha lasciato intravedere, in occasione della sua ultima conferenza stampa, misure complementari a marzo dopo la revisione delle stime di crescita e inflazione. Le ragioni addotte? Il calo più marcato dell’inflazione e delle stime inflazionistiche. Ma chi muove l’inflazione primaria? Il tasso d’inflazione europeo, principalmente legato al prezzo delle materie prime, non risalirà con tassi più bassi. E così com’è stato folle incrementare i tassi nel 2011 sulla scia dell’aumento del petrolio, sarebbe ingenuo abbassarli nel 2016 dopo la flessione dell’oro nero. La vera ragione è un’altra. Mario Draghi non può accettare il calo della borsa europea, pari al 10% da inizio anno, e le tensioni troppo marcate che gravano sugli spread creditizi. Siamo onesti! Tutti preferiamo le buone notizie.
In Giappone, Cina o altrove le banche centrali seguono lo stesso percorso. Il recente apprezzamento dello yen (+5% nell’indice TWI) sarà prima o poi controbilanciato da un nuovo intervento della BOJ che non può accettare di perdere la nota battaglia della svalutazione competitiva. Nel 2016 è quindi possibile che il governatore Kuroda abbia in progetto una nuova espansione del suo bilancio. Le autorità cinesi impareranno invece presto, a loro spese, le regole del gioco. E se le borse cinesi dovessero tornare a patire ulteriormente, la Banca di Cina sarebbe obbligata a ricorrere a nuove misure accomodanti.
Per affrontare il rischio deflazionistico, le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso e continueranno a immettere dosi massicce di liquidità. Negli Stati Uniti il meccanismo si avvia progressivamente verso la sua conclusione e questo dovrebbe spingere le altre banche ad un cambio attraverso nuove politiche espansive. Di fronte alla volatilità che scuote i mercati, Yellen non ha quindi più molta scelta; infatti, come dice il proverbio cinese, “Se fai un passo avanti, sei morto! Se fai un passo indietro, sei morto! Perché dunque arretrare?”