Il mistero dei fondi comuni di garanzia

A cura di Exante

I fondi co­mu­ni di in­ve­sti­men­to (a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le) sono al gior­no d’og­gi l’op­zio­ne più dif­fu­sa se si vuole in­ve­sti­re. Sono in­fat­ti i più con­ve­nien­ti per gli investitori comuni e impegnate, cioé per la mag­gio­ran­za delle per­so­ne al mondo.

Per sce­glie­re da soli le azio­ni più van­tag­gio­se in borsa si deve sa­pe­re molto. Per sa­pe­re molto ci vuole molto tempo. Il tempo, così come le co­no­scen­ze, man­ca­no al­l’ho­mo la­bo­rans, cioé chi la­vo­ra per otto ore al gior­no, cin­que gior­ni alla set­ti­ma­na, e che du­ran­te il fine set­ti­ma­na si ri­las­sa be­ven­do vino, fa­cen­do una gri­glia­ta e guar­dan­do una par­ti­ta di cal­cio.

Oggi il 99% dei ce­spi­ti dei fondi pen­sio­ne, così come i ce­spi­ti dei ri­spar­mi pen­sio­ni­sti­ci pri­va­ti, viene tra­sfe­ri­to nei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le che, per come viene in­te­so co­mu­ne­men­te, sono sol­tan­to ca­pa­ci di ga­ran­ti­re la cre­sci­ta bi­lan­cia­ta degli in­ve­sti­men­ti. Il ri­sul­ta­to di­ret­to di tale po­po­la­ri­tà di que­sti fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le è stato un au­men­to co­los­sa­le della loro ca­pi­ta­liz­za­zio­ne e la loro tra­sfor­ma­zio­ne in veri mo­stri del mer­ca­to va­lo­ri.

Oggi nel mondo ci sono 79 669 fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le che ge­sti­sco­no in­ve­sti­men­ti per 31,38 tri­lio­ni di dol­la­ri. In par­ti­co­la­re, il fondo più gran­de, Van­guard, ge­sti­sce 1,989 tri­lio­ni di dol­la­ri.

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Quo­ta­zio­ni di uno dei nu­me­ro­si fondi di in­ve­sti­men­ti di Van­guard Group, il Van­guard Total In­ter­na­tio­nal Bond ETF (NA­SDAQ: BNDX).

Que­sto fondo in­ve­ste nei ti­to­li a red­di­to fisso, emes­si fuori dagli USA. Un’a­zio­ne di que­sto fondo, in quan­to tale, co­sti­tui­sce un ti­to­lo da com­pra­re e ven­de­re in borsa. Per­ciò i fondi di que­sto tipo ven­go­no chia­ma­ti ETF (Ex­chan­ge Tra­ded Fund)

I fondi del­l’A­me­ri­ca del Nord sono senza dub­bio i lea­der: con­trol­la­no il 90% degli in­ve­sti­men­ti mon­dia­li. E la ra­gio­ne di que­sto è chia­ra: sono pro­prio gli ame­ri­ca­ni ad avere molti ca­pi­ta­li fi­nan­zia­ri di­spo­ni­bi­li, ma poco tempo li­be­ro per pia­ni­fi­ca­re i loro in­ve­sti­men­ti.

Per lungo tempo, la mag­gior parte dei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le è stata co­sti­tui­ta dagli spe­cia­li­sti pro­fes­sio­ni­sti, ge­sto­ri di por­ta­fo­glio. De­ci­de­va­no quale ti­to­lo in­clu­de­re nel fondo e quale no. Tali fondi si chia­ma­no Ma­na­ged Funds. Il loro motto è stato sem­pre “beat the mar­ket”, “bat­te­re il mer­ca­to”, cioè con­ce­de­re agli in­ve­sti­to­ri un ren­di­men­to più alto della media del mer­ca­to. Di re­go­la, i ge­sto­ri dei fondi af­fer­ma­va­no di es­se­re riu­sci­ti a rag­giun­ge­re que­sto obiet­ti­vo. Ma negli anni ’70 i loro por­ta­fo­gli ar­ti­fi­cial­men­te co­sti­tui­ti hanno ini­zia­to ad es­se­re sem­pre più cri­ti­ca­ti.

Il primo a cri­ti­ca­re for­te­men­te i fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le che bat­to­no il mer­ca­to è stato Bur­ton Mal­kiel nel libro “A spas­so per Wall Street” (1973). Poi sono ap­par­si gli ar­ti­co­li di Paul Sa­muel­son ne The Jour­nal of Port­fo­lio Ma­na­ge­ment (1974) e di Char­ley Ellis nel Fi­nan­cial Ana­lysts Jour­nal (1975). A di­strug­ge­re de­fi­ni­ti­va­men­te il mito del genio dei ge­sto­ri di por­ta­fo­gli è stato Al Ehr­bar nella ri­vi­sta For­tu­ne (1975). Ha ana­liz­za­to gli ampi dati sta­ti­sti­ci e ha con­clu­so che:

“L’ef­fi­ca­cia sto­ri­ca dei fondi co­mu­ni a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le è de­fi­ni­ti­va­men­te più bassa dei dati del mer­ca­to stes­so mi­su­ra­ti dal­l’an­da­men­to del­l’in­di­ce ampio tipo Stan­dard & Poor’s 500”.

Saltò fuori che mol­tis­si­mi ge­sto­ri di por­ta­fo­gli, che gua­da­gna­va­no tanto nei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le, ot­te­ne­va­no un red­di­to più basso di quel­lo di­mo­stra­to dal sem­pli­ce in­di­ce di mer­ca­to! La po­li­ti­ca del fondo do­vet­te cam­bia­re. Nel cru­cia­le anno 1975, John Bogle ha fon­da­to First Index In­vest­ment Trust, il primo fondo di un nuovo tipo, tutti i soldi del quale ven­go­no in­ve­sti­ti nei ti­to­li del­l’in­di­ce Stan­dard & Poor’s 500. Non in­ve­ste sol­tan­to negli stes­si ti­to­li, ma anche con le stes­se pro­por­zio­ni in cui sono rap­pre­sen­ta­ti nel­l’in­di­ce.

Al­l’i­ni­zio que­st’i­dea sem­bra­va ri­di­co­la. I pro­fes­sio­ni­sti de­ri­de­va­no il fondo di Bogle, dif­fon­den­do la frase Bo­gle’s Folly (“la fol­lia di Bogle”). Però poco dopo è di­ven­ta­to chia­ro che il ren­di­men­to della sua ini­zia­ti­va è in­fat­ti più alto di quel­lo della mag­gio­ran­za dei fondi “ar­ti­fi­cia­li”. I Ma­na­ged Funds di­ven­ta­ro­no meno dif­fu­si. Sulla scia di First Index In­vest­ment Trust sono ap­par­si nuovi fondi che se­gui­va­no la di­na­mi­ca degli in­di­ci. Ve­ni­va­no chia­ma­ti Index Funds, ver­sus i Ma­na­ged Funds.

Al mo­men­to at­tua­le gli Index Funds sono di­ven­ta­ti lo stru­men­to più usato al mondo per gli in­ve­sti­men­ti pas­si­vi. In par­ti­co­la­re, la mag­gior parte dei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le ame­ri­ca­ni in­ve­sto­no i pro­pri soldi nei fondi in­di­ciz­za­ti (la quan­ti­tà ge­ne­ra­le dei fondi fi­nan­zia­ri di­spo­ni­bi­li per i fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le degli USA am­mon­ta a 9 tri­lio­ni di dol­la­ri, per i fondi pri­va­ti a 15,5).

Se par­lia­mo del fondo di Bogle, i ce­spi­ti ini­zia­li del First Index In­vest­ment Trust (ri­no­mi­na­to Van­guard 500 Index Fund) per un va­lo­re di 11 mi­lio­ni di dol­la­ri si sono tra­sfor­ma­ti ades­so in 195 mi­liar­di. La so­cie­tà di Bogle, The Van­guard Group, è di­ven­ta­ta il fondo a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le mag­gio­re del mondo (conta quat­tor­di­ci­mi­la col­la­bo­ra­to­ri, 3 tri­lio­ni di dol­la­ri ge­sti­ti).

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Un altro ETF di Van­guard Group, Van­guard Long-Term Go­vern­ment Bond (NA­SDAQ: VGLT). I soldi di que­sto fondo sono in­ve­sti­ti nelle ob­bli­ga­zio­ni a lungo ter­mi­ne della Te­so­re­ria ame­ri­ca­na e in un altro tipo di de­bi­to go­ver­na­ti­vo.

La loro sta­ti­sti­ca ne­ga­ti­va (che ri­flet­te­va sol­ta­to la po­si­zio­ne media degli af­fa­ri, men­tre esi­sto­no anche dei Ma­na­ged Funds red­di­ti­zi) non è stata la sola a ren­de­re un ser­vi­zio ne­ga­ti­vo ai Ma­na­ged Funds; ha con­tri­bui­to anche la sem­pli­ci­tà del­l’or­ga­niz­za­zio­ne di Index Funds.

Gli in­di­ci pos­so­no es­se­re se­gui­ti sem­pli­ce­men­te dai com­pu­ter e si può au­to­ma­tiz­za­re tutto il più pos­si­bi­le. Gli or­ga­niz­za­to­ri di Index Funds hanno ri­dot­to no­te­vol­men­te le loro per­di­te di­sfa­cen­do­si degli ana­li­sti e dei ge­sto­ri di por­ta­fo­gli.

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Fondo co­mu­ne di ga­ran­zia PIMCO Dy­na­mic In­co­me Fund (NYSE: PDI) del tipo chiu­so. È ge­sti­to dalla so­cie­tà Al­lianz Glo­bal In­ve­stors Fund Ma­na­ge­ment, che in­ve­ste i suoi ce­spi­ti dif­fu­si in tutto il mondo nei ti­to­li a red­di­to fisso as­si­cu­ra­ti dal­l’i­po­te­ca, nelle ob­bli­ga­zio­ni emes­se dalle azien­de pub­bli­che ad alto pro­fit­to, non­ché nelle ob­bli­ga­zio­ni cor­po­ra­ti­ve e sta­ta­li dei paesi emer­gen­ti.

Anche se i fondi in­di­ciz­za­ti pre­sen­ta­no tanti van­tag­gi, hanno un evi­den­te lato ne­ga­ti­vo: non bat­to­no il mer­ca­to, non ci pro­va­no nean­che. Se­guo­no sem­pli­ce­men­te il mer­ca­to, in­clu­si i suoi crol­li.

In media, gli in­ve­sti­men­ti in un fondo in­di­ciz­za­to dif­fu­so tipo SPY (che ri­pe­te la di­na­mi­ca del­l’in­di­ce S&P 500) o DIA (che ri­pe­te la di­na­mi­ca del­l’in­di­ce Dow Jones) in al­cu­ni de­cen­ni ren­do­no il 10-15% annuo, il che è di gran lunga più alto del­l’in­fla­zio­ne del dol­la­ro e degli in­te­res­si ti­pi­ci dei de­po­si­ti ban­ca­ri e delle ob­bli­ga­zio­ni. Co­mun­que l’ap­proc­cio stes­so sem­bra in­di­ca­re un gesto di im­po­ten­za. Come ri­sul­ta­to si ha che se non si può bat­te­re il mer­ca­to, gli si dovrà ub­bi­di­re.

Una delle ra­gio­ni di tale po­si­zio­ne di­sfat­ti­sta degli in­ve­sti­to­ri co­mu­ni è anche la re­go­la­men­ta­zio­ne ri­go­ro­sa dei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le. Tutta l’at­ti­vi­tà dei fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le ame­ri­ca­ni viene ri­go­ro­sa­men­te re­go­la­ta dalla Legge sulle so­cie­tà d’in­ve­sti­men­ti del 1940 (In­vest­ment Com­pa­ny Act). Viene re­go­la­to tutto: a par­ti­re dal con­si­glio di con­trol­lo e os­ser­va­zio­ne e la sua com­po­si­zio­ne, agli stru­men­ti per in­ve­sti­re con­sen­ti­ti.

Per esem­pio, è vie­ta­to ai fondi di usare le po­si­zio­ni corte e in­ve­sti­re nei de­ri­va­ti­vi (fu­tu­res e op­zio­ni). Ma sono que­sti stru­men­ti a la­sciar gua­da­gna­re gli in­ve­sti­to­ri gra­zie al calo, così come alla cre­sci­ta, del mer­ca­to, non­ché as­si­cu­ra­re i por­ta­fo­gli dalle oscil­la­zio­ni ne­ga­ti­ve.

Tutti que­sti di­vie­ti sono as­sen­ti nei fondi hedge, che al­l’i­ni­zio (fin dagli anni ’20) usa­va­no in­ten­sa­men­te le tec­ni­che del­l’as­si­cu­ra­zio­ne – co­per­tu­ra (hed­ging) degli in­ve­sti­men­ti. Se­con­do me, sono que­sti, e non i fondi a ca­pi­ta­le va­ria­bi­le, ad es­se­re una forma ot­ti­ma­le anche per gli in­ve­sti­men­ti pas­si­vi (tran­ne le ri­ser­ve in­tan­gi­bi­li tipo quel­le pen­sio­ni­sti­che).

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