Errori nella valutazione del rischio azionario

A cura di Eric Lonergan, M&G Investments
Il premio al rischio azionario (ERP, da equity risk premium) misura la remunerazione (implicita nei prezzi correnti) che gli investitori esigono per detenere azioni anziché asset considerati esenti da rischio. Come si vede nel grafico 1, l’ERP resta elevato in relazione sia all’andamento storico sia ai livelli pre-crisi finanziaria globale. In particolare, il grafico dimostra che gli investitori stanno ricevendo remunerazioni molto maggiori per il rischio azionario, che non per il rischio legato ai tassi d’interesse più alti o agli spread del credito più ampi.
Errori nella valutazione del rischio azionario
Vale la pena di considerare cosa implicano queste cifre. Un extra rendimento del 6% equivale a una sovraperformance sulle obbligazioni e la liquidità di circa l’80% nell’arco di dieci anni, notevole in sé, ma ancora di più considerando che diversi asset a reddito fisso quotano a livelli corrispondenti a un rendimento pari a zero se non negativo.
L’ERP ha buoni precedenti come parametro predittivo. Ad esempio, se osserviamo sul grafico il passaggio di secolo, le quotazioni azionarie puntavano a rendimenti zero e un andamento sottoperformante rispetto ai Treasury e al credito. Nel decennio successivo, quella previsione si è avverata.
Ma perché l’ERP è così elevato? Perché oggi gli investitori chiedono un livello di remunerazione tanto alto per possedere azioni? Forse perché i rischi legati alle azioni sono più alti che in passato. I prezzi di mercato ci dicono che i profitti delle società saranno deludenti a lungo termine? Proviamo a vedere se i fatti giustificano questa spiegazione per le valutazioni azionarie attuali.
I bassi interessi sulla liquidità suggeriscono un problema di crescita? Gran parte del motivo per cui il premio al rischio azionario appare così alto, in termini storici, è che i tassi d’interesse esenti da rischio non sono mai stati tanto bassi. Quasi tutti siamo abituati a un modello in cui i tassi d’interesse reali e la crescita reale dovrebbero essere  approssimativamente uguali e quindi presumiamo che gli interessi bassi sulla liquidità ci dicano qualcosa sull’ambiente di crescita.
Eppure, l’attività economica continua a crescere in tutto il mondo, in particolare quello occidentale, a dispetto dei tassi d’interesse reali negativi fin dalla crisi finanziaria.
Errori nella valutazione del rischio azionario
Se dovessimo prestare orecchio solo alle teorie di stagnazione secolare, che tendono anch’esse a instaurare un collegamento fra i tassi d’interesse e la crescita (e di cui ho già parlato qui), partiremmo dal presupposto che oggi la crescita è tremenda. I fatti però dimostrano che non è così. Bisogna evitare di prendere alla lettera tutte queste teorie: l’ultima volta che la tesi di una stagnazione secolare ha acquisito popolarità è stato alla fine degli anni Quaranta, poco prima del periodo più prospero della storia per la crescita statunitense.
I profitti sono in calo? Anche in questo caso, se osserviamo i dati, nel complesso le cose vanno piuttosto bene per le società statunitensi. Al di là della normale variazione ciclica, ci sono scarsi elementi indicativi di un deterioramento strutturale nell’ambiente societario. Anzi, come ha scritto Dave in un post l’anno scorso, l’ambiente continua ad apparire favorevole, con i profitti USA in forte recupero dai minimi toccati durante la Grande crisi finanziaria e attualmente pari a circa il 10% del PIL. Quindi un peggioramento sul fronte degli utili non sembra una buona spiegazione dell’ERP elevato attuale.
Possibile che le valutazioni riflettano un’influenza comportamentale? Nella mia esperienza, le opportunità di investimento emergono quando l’emotività impedisce agli investitori di scindere le remunerazioni potenziali ottenibili da un’asset class dalla quantità di rischio fondamentale che stanno assumendo. Sono convinto che oggi sia questo il caso per le azioni.
Per me è chiaro che il motivo per cui gli investitori sono ancora restii a puntare sull’azionario è il ricordo dell’esperienza passata. A partire dal 2000, non hanno guadagnato praticamente niente dal possesso di azioni (si veda il grafico 3). Al contrario, hanno dovuto sopportare rendimenti volatili e a malapena al passo con l’inflazione.
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Credo che questo sia un fattore determinante ai fini della valutazione azionaria attuale. Come dimostrano i casi degli investitori si tenevano alla larga dai gilt a metà degli anni Novanta e di quelli britannici tuttora convinti che gli immobili siano sempre gli asset più sicuri, le nostre percezioni del rischio basate sull’esperienza passata possono avere un ruolo enorme. Le opportunità emergono quando queste percezioni contraddicono la valutazione obiettiva.
E la recessione? Per quanto il premio al rischio azionario sia un indicatore predittivo importante dei rendimenti potenziali ottenibili dalle azioni nel medio termine, un ritorno della recessione sovrasterebbe le considerazioni sulle valutazioni per un lungo periodo di tempo. Vale la pena di notare che, sebbene il mercato azionario possa vedere flessioni dal 10% al 20% anche in assenza di una recessione economica, ci vuole una recessione per provocare crolli del 50% e sono questi a provocare più danni.
Stiamo per entrare in recessione? Per la maggior parte degli investitori con portafogli diversificati, ciò che conta sono le recessioni strutturali, quando tutti i settori dell’economia si trovano in difficoltà. In confronto, le recessioni settoriali sono relativamente comuni e, in effetti, l’industria gas-petrolifera attualmente è in recessione.
In generale, le recessioni di ampia portata sono associate a una combinazione di tre fattori: politica monetaria rigida, un prezzo reale del petrolio elevato e tensioni nel settore finanziario. L’importanza di questi elementi dipende dal fatto che costituiscono un problema per tutte le aree dell’economia e, quando sono presenti tutti e tre, c’è un’alta probabilità di recessione.
Al momento, è chiaro che non esiste nessuna di queste condizioni. I banchieri centrali mantengono politiche quanto mai accomodanti (persino negli Stati Uniti), il prezzo del petrolio è vicino ai minimi pluriennali e il settore finanziario è senza dubbio più robusto, in seguito ai salvataggi governativi e al consolidamento.
Produzione industriale USA. I timori di recessione quest’anno sono partiti soprattutto da un dato più fiacco relativo alla produzione industriale statunitense. È un parametro senz’altro rilevante, ma bisogna ricordare che la produzione manifatturiera rappresenta soltanto il 12% del PIL statunitense. Vale anche la pena di notare che alcuni settori dell’industria stanno soffrendo, e convogliano tutta l’attenzione, ma altri vanno piuttosto bene. Steven ne ha parlato in un post recente, mentre Tim Duy e Josh Lehner hanno richiamato la nostra attenzione sul grafico in basso, da cui emerge che il numero di componenti della produzione industriale in contrazione in un determinato momento in genere è risultato nettamente maggiore durante le recessioni e nei periodi vicini.
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Ma un aspetto forse ancora più importante da sottolineare è che una recessione nel settore energetico rappresenta uno stimolo per altre aree dell’economia, pertanto ha effetti non di correlazione, ma piuttosto di diversificazione. A mio avviso, preoccuparsi per il petrolio a buon mercato è una reazione illogica. Un calo dei costi energetici dovrebbe avere un impatto positivo sui consumatori e il resto del settore societario.
Cina. Vorrei precisare che le argomentazioni espresse sopra riguardano le prospettive di recessione nel mondo occidentale e, in particolare, negli Stati Uniti. Non si basano su un’ipotesi ottimistica per la produzione di risorse nel mondo emergente o in Cina. La Cina, effettivamente, è alle prese con difficoltà molto concrete, ma le ripercussioni probabili di questa situazione su parti del mondo sviluppato sembrano sopravvalutate, forse a causa della natura globale della crisi finanziaria del 2008, ancora viva nella memoria degli investitori. Bisogna ricordare che gli Stati Uniti esportano decisamente più in Canada e in Messico che in Cina, e anche il contagio finanziario sembra poco plausibile, alla luce dei cambiamenti intervenuti del settore già citati.
Conclusione. In base alle valutazioni, l’azionario presenta un’opportunità a medio termine per gli investitori, in rapporto alla liquidità e ad alcuni segmenti del mercato obbligazionario. I segnali di valutazione sembrano derivare in larga misura non da una visione obiettiva dei rischi connessi alle azioni, ma dalle esperienze di possesso di asset azionari fin dal cambio di secolo (un’esperienza a sua volta totalmente coerente con i segnali di valore presenti nel 2000). Inoltre, l’episodio specifico che stiamo attraversando oggi sembra riflettere una visione eccessivamente pessimistica delle prospettive di crescita globale e potrebbe rappresentare un punto di ingresso favorevole per sfruttare quella opportunità.

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