Le paure dei mercati finanziari sono legittime? I sei temi macro del momento

A cura di Philippe Ithurbide, Global Head of Research, Strategy and Analysis, Amundi Am
Dall’estate scorsa, la macchina si è inceppata. I mercati finanziari vedono nero, ogni tema viene interpretato in chiave negativa. Ecco perché abbiamo assistito a un repricing del rischio, all’implementazione di strategie per la protezione del portafoglio e alla liquidazione delle posizioni, al punto che i mercati azionari dei maggiori paesi hanno ceduto tra il 10% e il 15% e i rendimenti dei titoli di Stato decennali sono crollati all’1,74% negli Stati Uniti ( – 55 pb da inizio anno) e allo 0,23% in Germania (- 40 pb da gennaio). Gli spread del credito (obbligazioni corporate e titoli sovrani) si sono ampliati: l’iTraxx Main è salito di 45 pb (agli attuali 120 pb), l’iTraxx Crossover di 150 pb (a 460 pb) e sono aumentate le prese di beneficio sulle società e sui settori che offrono ancora dei rendimenti positivi. L’oro ha guadagnato oltre il 12% nel giro di poche settimane, prova lampante di quanto sia forte l’avversione al rischio. Come siamo arrivati a questo punto? Dobbiamo rivedere in modo significativo le previsioni economiche e finanziarie e ridefinire le asset allocation? L’obiettivo di questo articolo è quello di dare una risposta a queste domande così importanti nel contesto attuale.
1. Perché il calo del prezzo del petrolio fa così paura? Dagli inizi di gennaio, il Brent è sceso del 12% e ora quota 33 dollari al barile. I mercati finanziari di solito rispondono favorevolmente al ribasso del prezzo del greggio per svariate ragioni:
• il calo del prezzo è positivo per i paesi che consumano materie prime;
• favorisce i margini e gli utili;
• spinge ulteriormente al ribasso gli indici dei prezzi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, fornendo margini di manovra sulle politiche monetarie ecc…
• sostiene la crescita e la domanda interna in un momento in cui quest’ultima (se escludiamo la spesa pubblica) rappresenta il principale motore della crescita Tuttavia, il forte calo del prezzo del petrolio, iniziato a metà del 2015, spaventa i mercati finanziari. Perché una simile reazione?
• Il calo del prezzo del petrolio ha indebolito i paesi produttori rendendoli vulnerabili (Arabia Saudita, paesi del Golfo, Canada, Norvegia ecc.) e in alcuni casi li ha messi in grave difficoltà (Venezuela, Azerbaigian). Ritorna il rischio paese.
• Sono emersi timori di default o fallimenti delle società del settore energetico (si veda il peso di tale settore nell’universo delle obbligazioni HY USA).
• In questo contesto anche i titoli finanziari, soprattutto quelli del settore bancario, sono diventati molto più vulnerabili e la loro esposizione al settore energetico si sta facendo problematica.
• Il calo del prezzo del greggio ha spinto al ribasso gli indicatori dell’inflazione, compromettendo l’efficacia delle misure già varate dalle banche centrali in un momento in cui, soprattutto in Giappone e nella zona Euro, si desidererebbe veder risalire l’inflazione o le stime d’inflazione.
• Esso incide anche sulle riserve di alcuni fondi sovrani (fondi petroliferi e SWF in generale), che potrebbero trovarsi costretti a liquidare dei portafogli per aumentare il sostegno alla liquidità di cui necessitano gli Stati.
Ѐ importante notare come il calo dei prezzi delle commodity sia stato generalizzato e in linea con una flessione della domanda legata al rallentamento della crescita mondiale. Tuttavia, il petrolio ha però delle caratteristiche uniche: due terzi del suo calo sono dovuti all’andamento dell’offerta. Il fenomeno della sovrapproduzione è diffuso: l’OPEC è incapace di regolare il mercato, gli Stati Uniti sono fortemente impegnati a sviluppare il petrolio di scisto (la produzione del greggio è salita del 65% in cinque anni), l’Iran potrebbe entrare sul mercato, c’è il problema della produzione «selvaggia», in breve ci sono numerosi fattori che creano uno squilibrio tra domanda e offerta anche se la soluzione (stabilizzazione del prezzo del greggio) giungerà indubbiamente dal lato dell’offerta.
E’ difficile prevedere decisioni di natura politica come quella di ridurre la produzione dell’oro nero, e la prima riunione ufficiale dell’OPEC non si terrà prima di giugno. «Non siamo pronti a ridurre la nostra produzione» ha dichiarato il segretario generale dell’OPEC Abdallah el-Badri dopo una riunione tenutasi a Mosca il luglio scorso. A fine gennaio, il Venezuela ha richiesto una riunione di emergenza per stabilizzare i prezzi, ma i Paesi del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita, finora si sono opposti. Si teme che il prezzo del petrolio continui a scendere fino a giugno, con conseguenze negative per i paesi produttori e per le società del settore.
2. Perché le banche centrali non riescono a rassicurare i mercati finanziari? Le banche centrali sembrano aver perso il controllo. Per troppo tempo i mercati finanziari sono stati “banche centrali-dipendenti”, e queste ultime non hanno più la credibilità di una volta. La BoJ ha deciso di applicare un tasso d’interesse negativo sui nuovi depositi collocati dalle banche presso la banca centrale, un tentativo piuttosto evidente di impedire una forte rivalutazione dello yen (una delle valute attualmente più sottovalutate) e un riconoscimento dell’inefficacia del QQE (programma di easing quantitativo e qualitativo).
Ovviamente la BOJ continuerà a portare avanti la sua politica di acquisti di attività (600 miliardi di dollari nel 2016), ma ha anche ammesso che la situazione riguardo all’inflazione/stime d’inflazione e la crescita sono peggiorate. Inoltre, l’inizio d’anno sui listini giapponesi è stato il peggiore dal 1949, e ciò spiega in larga parte le decisioni delle autorità monetarie. La BCE ha fatto sapere che riconsidererà la propria politica monetaria alla luce dei nuovi sviluppi come i prezzi dell’energia, il ritorno della volatilità, le oscillazioni dello yuan, la situazione della Cina e dei Paesi emergenti, così come dei fattori responsabili dell’ulteriore revisione al ribasso delle stime d’inflazione, sia presenti, sia future, del rinnovato vigore dell’euro e dei rischi supplementari sulle esportazioni. Le pressioni deflazionistiche stanno aumentando. I mercati finanziari non hanno reagito positivamente alle decisioni prese a dicembre (prolungamento del QE, taglio del tasso sui depositi), e ciò evidenzia bene le difficoltà della BCE, intenzionata a varare nuove misure a marzo.
Essa può scegliere tra le seguenti opzioni:
prolungare l’attuale programma di QE: estendere la scadenza e/o aumentare il volume degli acquisti di attività, peraltro già ingente. Nel solo 2016 la BCE acquisterà 140 volte l’importo netto delle emissioni tedesche o il doppio delle emissioni nette spagnole. E’ difficile immaginarsi un aumento dei tassi d’interesse in un simile contesto.
estendere il QE a nuove classi di attività: ci stiamo riferendo alle obbligazioni corporate. – variare la distribuzione degli acquisti di attività per aumentare gli acquisti degli asset periferici.
tagliare ulteriormente il tasso d’interesse sui depositi. Noi non siamo fra i principali sostenitori di questa misura, ma se la BCE vuole spingere agli estremi questa linea di pensiero (testando il livello al di là del quale le banche non saranno più in grado di depositare la liquidità presso la banca centrale europea), continuerà in questa direzione. Il taglio dei tassi ha una sua logica, ma a nostro avviso sarebbe controproducente per molti motivi, non ultimo legittimerebbe i timori deflazionistici. Infatti l’annuncio di una tale misura ha causato instabilità sui mercati finanziari sia in Europa, sia in Giappone.
ricorrere ai TLTRO per sostenere il sistema finanziario, soprattutto i paesi periferici della zona Euro. Ѐ importante consolidare la ripresa economica, la deframmentazione finanziaria e il credito bancario. Nel frattempo la Fed, in assenza d’inflazione, e di fronte al rallentamento della crescita (il PIL è cresciuto solo dello 0,7% nell’ultimo trimestre del 2015), farà grande fatica a portare avanti attivamente un ciclo di rialzo del denaro. Noi scommettiamo tuttora su un unico rialzo dei tassi da qui alla fine del 2016. La Fed è l’unica banca centrale che sta alzando i tassi d’interesse e un dollaro più forte sarebbe indubbiamente poco gradito in questo momento. Inoltre, la Fed non gode di margini di manovra e dovrà lanciare un QE4 se vorrà stimolare la crescita e l’inflazione.
3. Perché la Cina impensierisce i mercati finanziari? La Cina rappresenta indubbiamente il maggior rischio sistemico e gli eventi degli ultimi mesi (svalutazione dello yuan, chiusura temporanea dei mercati azionari ad agosto e gennaio) non hanno fatto che alimentare i timori. La PBoC ha ancora il controllo della situazione? Il rallentamento della Cina potrebbe diventare ancora più brutale? La politica economica è ancora efficace? Queste sono le domande chiave. I timori attuali ci paiono eccessivi.
Il rallentamento della Cina è ormai un fatto e deriva dal suo maggior sviluppo. Lo sviluppo economico è sempre accompagnato da una riduzione dei risparmi, da una crescita più lenta e da una crescita potenzialmente più bassa. La situazione è aggravata dai dati demografici negativi (la Cina invecchierà prima di diventar ricca) e dai minori aumenti della produttività che incidono direttamente sulla crescita potenziale. Tutto ciò però non è una novità.
La Cina non svaluterà lo yuan. Ha preso una serie di impegni nei confronti dei G20 e del FMI (lo yuan farà parte del paniere SDR a partire dal prossimo ottobre), e spera che la sua valuta diventi la valuta regionale di riferimento (la stabilità dei tassi di cambio è indispensabile); la crescita ormai è trainata più dalla domanda interna che dalle esportazioni nette (in altre parole, lo yuan non è più così importante ai fini della crescita).
La Cina non modificherà radicalmente la sua politica economica. Rimarrà un mix di politica monetaria, politica fiscale, politica di bilancio e politica sulle entrate. La politica sui tassi di cambio (svalutazione) non seguirà questa direzione. Tuttavia, mentre finora lo yuan ha “seguito” il dollaro USA, in futuro la Cina gestirà la stabilità della sua valuta rispetto a un paniere di valute, un compito difficile che non escluderà né la volatilità, né lo svalutazione dello yuan sullo USD, ma che essa ha comunque svolto in maniera efficace dall’estate 2015.
• La Cina è quindi in grado di sostenere la crescita se necessario. Prevediamo una crescita del PIL intorno al 6% nel 2016 e del 5,8% nel 2017.
Nessun hard landing o crash landing nell’immediato futuro. Ѐ difficile prevedere come sarà l’atterraggio in Cina, ma come termine di riferimento possiamo prendere il Giappone negli anni Settanta, dove una crescita del 3% rappresentò un hard landing.
La crescita della Cina non scenderà al 3% nei prossimi due anni, ma è inevitabile un “atterraggio” dell’economia cinese verso il suo potenziale di crescita (al 10% circa 10-15 anni fa, intorno al 5% in questo momento, e indubbiamente più bassa fra 5-10 anni).
• In realtà, il dato sulla crescita non è così importante. Una crescita equilibrata del 5% alimentata dalla domanda è migliore di una crescita del 10% trainata solamente dalle esportazioni ed essa sarebbe più salutare per la Cina, per i suoi partner commerciali e per la stabilità finanziaria.
4. Dovremmo essere preoccupati per la recessione negli Stati Uniti? Abbiamo sostenuto a più riprese che il consenso di mercato era troppo ottimista. Ora assistiamo a una revisione globale di queste previsioni. Solo alcuni giorni fa, un’importante istituzione finanziaria ha rivisto la sua stima sulla crescita negli USA per il 2016 dal 3,3% all’1,8%. La revisione di per sé non ci stupisce, ma ci chiediamo se una proiezione così ottimistica era giustificata visto che gli indicatori anticipatori stimano da lungo tempo una crescita nell’ordine del 2%.
Per quanto ci riguarda, abbiamo rivisto le stime sulla crescita nel 2014: una significativa revisione al ribasso della crescita mondiale dal 3,8% al 3,1% tra il gennaio 2014 e il dicembre 2014, essenzialmente dovuta al rallentamento dell’economia nei Paesi emergenti, una revisione al ribasso meno pronunciata della crescita USA che dovrebbe gradualmente convergere verso il suo potenziale di crescita (intorno all’1,8%) e una revisione al rialzo della crescita nella zona Euro.
Manteniamo questo punto di vista. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, non dobbiamo dimenticare che i consumi (oltre il 70% del PIL) continuano a tenere bene e che c’è un grosso scarto tra il settore terziario (solido) e quello manifatturiero (più fragile). Tutto ciò, secondo noi, depone a favore di una crescita nell’ordine del 2% e non di una crescita negativa. Non è il caso in questo momento di temere una recessione negli Stati Uniti, ma ciò che preoccupa è l’assenza di margini di manovra da parte della Fed.
La situazione attuale è completamente diversa da quella del 2004-2006, due anni durante i quali la Fed ha potuto alzare i tassi 17 volte, per un totale di 400 pb, creandosi così dei margini di manovra… che non ha tardato a utilizzare in occasione della crisi finanziaria. Il quadro attuale è ben diverso: la Fed è in ritardo sul ciclo economico: la stabilità finanziaria, e in misura minore il dollaro, non possono permettersi un rialzo dei tassi.
5. Dobbiamo temere un cedimento del sistema bancario? Questa è la domanda che ormai è sulla bocca di tutti. Bisogna ammettere che il calo dei titoli bancari è stato spettacolare: alcuni titoli di prim’ordine hanno ceduto quasi il 40% (Unicredit, Credit Suisse, Deutsche Bank), ovvero due volte di più del loro indice borsistico nazionale. Nel complesso, il settore ha perso oltre il 20% del suo valore. I motivi sono diversi:
Il diffuso rallentamento dell’economia rappresenta ovviamente un fattore negativo.
Il calo del prezzo del petrolio e i timori di una esposizione dei titoli bancari al settore energetico preoccupano, in parte ricordano i timori riguardo alla loro esposizione ai subprime nel 2007, anche se in proporzioni molto diverse.
– Fattori specifici come in Italia, dove la creazione di una “bad bank” non ha raccolto un supporto unanime, o in altri Paesi periferici dove i sistemi bancari sono ancora fragili.
– Continuano a circolare i timori/le voci riguardo al fallimento di un grande istituto bancario.
I tassi molto bassi stanno riducendo gli utili delle banche. Ovviamente non si tratta di un problema nuovo per l’Europa, ma le mosse recenti della BoJ e il ridimensionamento delle attese riguardo a un inasprimento dei tassi negli USA stanno aggravando questo trend;
Le normative più severe non favoriscono le banche, ma anche questa non è una novità.
– Un altro fattore che indubbiamente aggrava la situazione è il peso dei titoli bancari nei portafogli monetari a breve termine che hanno già risentito dei tassi molto bassi (spesso negativi) e che generavano la loro performance dagli spread bancari. Alcuni hanno dovuto capitolare alla fine, il che spiega perché il rialzo degli spread obbligazionari, dopo aver contagiato le azioni, stia investendo anche gli spread a breve termine.
– Infine c’è un problema globale di liquidità sul mercato del debito bancario, ed è facile che i movimenti diventino esagerati. La riduzione della liquidità è legata alle attuali politiche di QE e alla caccia al rendimento e agli spread – da qui la sovraperformance degli Additional Tier One – così come alle normative che hanno ridotto il numero di attori in grado di offrire liquidità e alcune delle attività che la generavano.
6. Dobbiamo rivedere le stime sul dollaro USA e … più in generale sulle valute? Finora hanno prevalso le seguenti previsioni:
Un euro debole, il cui corso dipende sostanzialmente dalle mosse della BCE;
– La rivalutazione potenziale del dollaro USA, che sarà limitata ma reale visti gli orientamenti della politica monetaria in Europa, Cina e Giappone. Tuttavia, la stabilizzazione del prezzo del petrolio e dell’economia cinese provocherebbero indubbiamente un apprezzamento delle le valute dei Paesi emergenti e quindi un calo dei tassi di cambio effettivi dello yen, dell’euro e del dollaro USA. Non ci troviamo però ancora in questa fase.
Un’ulteriore, potenziale svalutazione dello yen, di portata limitata tenuto conto del fatto che è una valuta già molto sottovalutata;
Una svalutazione graduale e contenuta dello yuan, con la banca centrale cinese che sta cercando di ottenerne la stabilità rispetto a un paniere di valute.
Gli sviluppi di queste ultime settimane però non sono affatto in linea con queste previsioni. E’ vero che lo yuan è sotto controllo e che dalla scorsa estate il tasso di cambio effettivo è stabile – quindi c’è stato un corto circuito tra lo yuan e il dollaro USA – ma è anche vero che lo yen ha smesso di svalutarsi e che la BoJ sta cercando di impedire il suo futuro apprezzamento. Per contro, l’euro si è rafforzato e il dollaro si è svalutato. Ma ne siamo davvero stupiti? In realtà no. Per ora la rivalutazione dell’euro può essere spiegata in due modi complementari:
– un elemento nuovo: la novità è rappresentata dalla revisione al ribasso delle stime sulla crescita USA e delle attese di un inasprimento monetario, ora maggiormente in linea con le nostre revisioni.
La politica sui tassi di cambio: in Giappone, Cina e Stati Uniti esiste una politica reale, esplicita, sui tassi di cambio , ma non è così nella zona Euro. Dall’introduzione della moneta unica, l’euro è stata una valuta di aggiustamento e rimane la «valuta di sfogo» del sistema. Infine, lo yen ha un forte potenziale di apprezzamento e il dollaro USA, così come lo yen, è un buon strumento di macro-copertura. L’euro, protetto dall’attuale avanzo delle partite correnti della zona Euro, potrebbe riprendere a scendere quando la BCE annuncerà le sue nuove misure. Noi manteniamo il nostro target EUR/USD a 1,05.

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