I rischi del market timing

A cura di Marco Aboav, Macro Portfolio Manager di MoneyFarm
Il market timing, la strategia d’investimento che prova a vendere prima di una fase rialzista del mercato e a comprare prima di quella ribassista, è da tempo tema al centro delle discussioni di addetti ai lavori, accademici e stampa. L’idea di poter prevedere i trend dei mercati, un po’ come si fa il weekend quando tutti si trasformano in esperti allenatori, per quanto attraente dal punto di vista psicologico, in caso di scelte sbagliate può comportare conseguenze molto pericolose per i nostri patrimoni.
Basta guardare all’analisi storica dei principali indici che monitoriamo giornalmente (inclusi i dividendi), per comprendere quanto il market timing sia rischioso e sconveniente. Se guardiamo al comparto azionario, la media dei rendimenti dell’indice MSCI World, calcolata su un periodo compreso tra gennaio 1990 e marzo 2016, è pari al 5,6% per anno; per lo S&P è un sorprendente 8,7%; per l’inglese FTSE 100 è al 6,5% e, infine, per il nostrano FTSEMIB allo 0,8% (sebbene per quest’ultimo l’analisi parta dal 1998).
A primo impatto sembrano numeri ben al di sotto di quelli che ci si aspetta in genere dal comparto azionario, soprattutto se si considera il FTSEMIB. Ma se per gli stessi indici si considera il rendimento complessivo, il 371% per l’MSCI World e il 917% per lo S&P 500 sono rendimenti decisamente attraenti. L’effetto del compounding (la regola d’oro nella gestione del risparmio che consiste nel semplice concetto che ritorni annuali non vanno sommati, ma moltiplicati aumentando così il ritorno dell’investitore) non va sottovalutato.
Ciò che l’investitore dovrebbe monitorare è il ritorno reale, ossia quello dato dal ritorno nominale dell’investimento meno l’inflazione, perché il potere d’acquisto aumenta sulla base della ricchezza reale e non nominale. Per un calcolo corretto, dovremmo quindi prendere in considerazione indici relativi alla valuta locale e l’inflazione di riferimento.
Prendiamo ad esempio gli indici MSCI World e S&P 500 entrambi prezzati in dollari. Tra il gennaio 1990 ed il marzo 2016, l’inflazione media americana e’ stata pari al 2,5% all’anno, il rendimento reale complessivo è stato pari al 3.1% per l’indice MSCI World e al 6.2% per l’indice S&P, meglio di quanto si sarebbe ottenuto investendo in prodotti monetari. Se si guarda ad esempio all’indice Barclays 3 mesi LIBOR, che si avvicina molto a quanto si sarebbe potuto ottenere con un conto di risparmio a breve termine negli Stati Uniti, il rendimento annualizzato totale da dicembre 2008 a marzo 2016 sarebbe stato del 2,3%. Tenendo conto poi dell’inflazione, il rendimento reale sarebbe stato nettamente inferiore, ossia -0,2% per anno.
Per quanto riguarda il comparto obbligazionario, analizziamo l’andamento del’ indice JP Morgan Global Aggregate Bond, tra i più importanti benchmark per il mondo degli investimenti obbligazionari che comprende obbligazioni governative e societarie. Da gennaio 1990 a marzo 2016, il rendimento annualizzato è stato del 5,8% e quello complessivo del 390%. In riferimento alle materie prime, l’indice RJ/CRB index, uno tra i benchmark più noti, ha guadagnato tra gennaio 1994 e marzo 2016, il 4,3%, ossia il 167% in termini di rendimenti totali, positivi anche dopo aver sottratto l’impatto dell’inflazione (sempre considerando una strategia buy and hold, dunque l’assenza di transazioni che richiederebbero diversamente dei costi da tenere in considerazione).
Se di tutti gli indici analizzati, escludessimo i 10 giorni migliori, avremmo uno scenario del tutto diverso che dovrebbe far riflettere gli investitori/trader focalizzati nel breve termine. Sul fronte azionario, il rendimento annualizzato del MSCI World sarebbe stato del 3,5%, il 2,1% in meno di quello ottenibile con una strategia buy and hold. Gli indici S&P, FTSE100 e FTSEMIB avrebbero offerto rispettivamente il 6,1%, il 4% e il -3,6%.
Sull’obbligazionario e le materie prime, l’indice JP Morgan Aggregate Bond ha prodotto un rendimento pari al 5.1%, mentre l’indice RJ/CRB 2.1%. I rendimenti cambiano considerevolmente se si considerano i costi di trading, soprattutto nel mondo dell’obbligazionario, caratterizzato da un bid-ask spread (costo di acquisto e vendita). La letteratura accademica fornisce evidenze ancora più chiare in merito alle difficolta nell’utilizzare strategie di market timing che tendono spesso ad assomigliare più ad una scommessa al casinò che ad un investimento. Assumendo la probabilità di “cogliere il momento giusto” sia pari al 50%, se si considerano i costi di trading, questa si riduce notevolmente.
Il gruppo di addetti ai lavori in grado di ottenere benefici dal market timing è ristretto ed è difficile averne accesso. I risparmiatori prima di provare con il loro risparmi a perseguire strategie di market timing dovrebbero chiedersi se dispongono delle competenze necessarie, se sono in grado di gestire lo stress insito in queste strategie e se hanno il tempo necessario da dedicare a questa attività.
Quanto descritto non deve scoraggiare gli investitori. Infatti la soluzione per i risparmiatori è utilizzare un approccio basato sull’analisi dei trend di mercato di lungo termine, e sfruttare i principi della diversificazione e di un’adeguata gestione del rischio. Questi punti chiavi sono la condizione necessaria per rendimenti soddisfacenti e sostenibili nel lungo termine. Il primo riguarda appunto la comprensione dei trend di lungo termine e dei rendimenti attesi delle varie asset class, sui quali vi è una vasta ricerca accademica che testimonia quanto sia più semplice ottenere stime corrette sui rendimenti futuri con orizzonti a 5/10 anni, piuttosto che stimare cosa succederà’ l’anno prossimo.
Il secondo punto è fondamentale per ottimizzare l’investimento e ottenere migliori rendimenti, sfruttando i punti di forza e debolezza di ciascuna asset class. Il terzo infine permette di preservare il capitale in condizioni di mercato difficili e di bilanciare i rendimenti, evitando agli investitori cattive sorprese.

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