Opec: ultima possibilita’ per un accordo?

A cura di Christopher Dembik, Economist di Saxo Bank
Il mondo guarda a Doha, ritenendo così fondamentale il raggiungimento di un accordo per il prossimo 17 aprile. Eppure potrebbe sbagliare. Il risultato di questo incontro è sostanzialmente irrilevante: non servirà in ogni caso a stabilizzare sufficientemente il prezzo del greggio né a compensare le difficoltà delle finanze pubbliche della stragrande maggioranza dei paesi produttori.
Per raggiungere un accordo è, prima di tutto, necessaria una convergenza di interessi ancora inesistente. Iran e Iraq sono impegnati in una lotta alla riconquista di quote di mercato. Senza grandi sorprese la produzione mensile iraniana è cresciuta del 13% rispetto al giugno 2014, mentre in Iraq ha registrato +32% nello stesso periodo. È chiaro come nessuno dei due paesi sia pronto per un congelamento della produzione. Nel breve termine, il mercato si sta concentrando sull’Iran, ma su una prospettiva di più lungo termine, è l’aumento della produzione irachena che crea la maggior parte dei rischi dal lato dell’offerta.
Sono due i paesi che stanno indiscutibilmente sostenendo i costi della strategia lanciata dall’Arabia Saudita e dagli altri paesi del Gulf Cooperation Council per ottenere il controllo del mercato: Venezuela e Algeria. In entrambi i casi, l’industria petrolifera non è stata in grado di adattarsi al calo dei prezzi. Di conseguenza, la produzione mensile è scesa, da giugno 2014, rispettivamente dello 0,3% in Venezuela e del 6,7% in Algeria. Entrambi questi paesi si trovano sul filo del rasoio ed entrambi ricorreranno facilmente a misure straordinarie nel medio termine (quali svalutazione della moneta, blocco dei prezzi, controlli sui capitali) nonché, successivamente, anche ad aiuti internazionali.
In un contesto di lungo termine di bassi prezzi petroliferi, l’urgenza per i paesi produttori può essere riassunta in due elementi. Innanzitutto, il prezzo di un barile deve coprire i costi di produzione: è questo il caso attuale, anche in Venezuela dove è tra i più alti, con 23,50 $/b. In secondo luogo, va trovato un prezzo di equilibrio per permettere una vera e propria transizione economica di questi paesi nelle condizioni meno sfavorevoli possibili. Si tratta di un processo già iniziato: i membri dell’Opec hanno integrato le proprie necessità di diversificare le fonti di fatturato o di ricorrere a prestiti internazionali in un ambiente di tassi così vantaggiosamente bassi. Considerando le capacità di adattamento dei paesi del Golfo e le strategie nazionali nei confronti di Iran e Iraq, il cartello non è vincolato ad ottenere un accordo a qualsiasi prezzo nel breve periodo.
Sono tre i possibili scenari per Doha:

  • Nessun accordo.In questo caso il prezzo del barile potrebbe crollare rapidamente a 30-33$ già all’annuncio, prima di rimbalzare nel medio termine sui suoi livelli di trading delle ultime settimane, tra 35-40$. Uno scenario del tutto verosimile: Doha si rivelerebbe, alla fine, un non-evento per il mercato. Un accordo globale sarebbe piuttosto da attendersi per il prossimo giugno;
  • Un accordo di minima.Si tratterebbe di un blocco della produzione per diversi paesi, secondo lo stesso piano previsto per l’accordo di febbraio. Non risolverebbe né il problema di eccesso di offerta, né le pressioni al ribasso sui prezzi. Inoltre, si aprirebbe la questione del rispetto dei termini dell’accordo da parte di tutti i paesi soggetti interessati. La Russia per esempio ha interpretato piuttosto liberamente la decisione di febbraio, che pur l’aveva coinvolta, di un congelamento della produzione. A marzo, infatti, la produzione russa ha continuato ad aumentare, culminando in un massimo dai tempi della fine dell’era sovietica: 10,91 milioni di barili al giorno. Infine, un accordo di questo tipo è evidentemente lontano dagli interessi dell’Arabia Saudita, consistendo sostanzialmente nel dare carta bianca all’Iran nella lotta per la riconquista di quote di mercato;
  • Un accordo globale, Iran compreso. Si potrebbe includere all’accordo una clausola speciale che ritardi ulteriormente la corsa di Teheran verso i massimi, prima di un congelamento totale della produzione. Si tratterebbe delloscenario più favorevole per tutti i paesi produttori, ma richiederebbe forti pressioni sull’Iran per una sua accettazione. Sarebbe anche l’unico caso in cui il prezzo del barile potrebbe tornare verso il target di medio periodo dell’Opec, stabilito a 50$. Un simile accordo non sarebbe semplice da implementare e richiederebbe stretti controlli da parte dell’Opec sui prezzi di mercato. In effetti, l’organizzazione non può permettersi un prezzo che torni sui 50-60 $/b, favorendo nuovamente i produttori americani di petrolio di scisto, che inonderebbero il mercato con la propria offerta.

Tuttavia, anche nel caso di un accordo globale, l’OPEC non sarà comunque in grado di arginare  l’emergere inevitabile di una duplice minaccia, da una parte della produzione irachena e, dall’altra, del petrolio di scisto, i cui costi operativi stanno calando rapidamente grazie all’innovazione tecnologica. I membri dell’OPEC sono consapevoli di poter soltanto prendere tempo per cercare di diversificare le proprie economie e, in alcuni casi, riadattare i propri sistemi sociali, ormai inadeguati, al contesto di bassi prezzi petroliferi.

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