Azioni e obbligazioni raccontano due mondi opposti: chi sta sbagliando?

A cura di Deutsche Asset Management

Il 21 maggio 2015 l’indice azionario S&P500 ha toccato i massimi di sempre e lo scorso venerdì, per pochi decimali, il record non è stato superato, e basterebbe includere il pagamento dei dividendi nel corso degli scorsi tredici mesi per capire che in realtà abbiamo appena superato i massimi di sempre. Non è così sul fronte obbligazionario, dove rispetto a tredici mesi fa i rendimenti dei titoli statunitensi, giapponesi ed europei è ulteriormente calato, ed in modo significativo. La scorsa settimana anche il decennale olandese (dopo quello tedesco) è sceso per la prima volta nella storia in territorio negativo. Il dato è particolarmente interessante perché la traccia storica dei tassi di interesse olandesi è molto antica, e precede di diversi secoli quella tedesca o statunitense (nel 1517, inizio della traccia storica, il nome America aveva soltanto dieci anni di vita, mentre Lutero pubblicava a Wittenberg le 95 Tesi): ebbene, mai negli ultimi cinquecento anni i tassi olandesi sono stati così bassi. In totale, più di tredici trilioni di dollari di obbligazioni al mondo hanno attualmente rendimenti a scadenza negativi.

Torniamo con ordine agli Stati Uniti, per mantenere uniforme l’analisi tra obbligazionario ed azionario. Ebbene, com’è noto, azioni ed obbligazioni dovrebbero muoversi – il più delle volte – in modo speculare: se l’azionario sale, l’obbligazionario dovrebbe correggere, e viceversa. Grazie alle (o per colpa delle) politiche monetarie straordinarie intraprese dalle banche centrali, dalla crisi del 2007-2009 i tassi di interesse sono stati abbassati più di 650 volte (vale a dire una media di uno ogni tre giorni di borsa) e sono state adottate misure mai utilizzate prima d’ora.

Anche per via di tutto ciò, sia l’indice S&P500 è ai massimi di sempre mentre i rendimenti dei Treasury decennali e trentennali è ai minimi di sempre. Chi dei due sta sbagliando? Per farlo, è bene stare attenti alla stagione degli utili, che si inaugura questa settimana negli Stati Uniti, ma non prima di prendere atto del fatto che uno dei motivi per cui i Treasury sono oggetto di acquisto sta nel fatto che le politiche espansive di BCE e Giappone hanno portato ad un’enorme fame di “rendimento”, che appunto ha contagiato i Treasury e le società ad alto dividendo. Oltre alla stagione degli utili, dobbiamo tenere sotto osservazione l’andamento dell’economia globale, ed è qui che entrano in gioco i dati macro delle prossime settimane. La settimana che si apre è carica di appuntamenti importanti: inflazione, vendite al dettaglio, produzione industriale USA, ma anche PIL cinese. Nel frattempo, l’appiattimento della curva USA, il cui differenziale tra dieci e due anni è ai minimi di questo ciclo, lancia un segnale di allarme.
Il mercato del lavoro USA si riprende a giugno dopo un pessimo maggio
Partiamo ancora una volta dagli Stati Uniti, dove la scorsa settimana è stato pubblicato l’Employment Report relativo al mese di giugno. Dopo un pessimo dato di maggio, rivisto ulteriormente al ribasso (soltanto 11.000 nuovi posti di lavoro), il dato di giugno si è rivelato ben superiore alle attese: a giugno risultano creati ben 287.000 nuovi posti di lavoro, mentre le attese erano per 175.000. Il dato risulta solido anche nelle sue componenti settoriali, al punto che l’indice di diffusione (che analizza l’uniformità delle tendenze di occupazione) risulta in aumento da un pessimo 48,1 di maggio a 62,4: più di sei settori su dieci vedono un aumento degli occupati nel mese. Il tasso di disoccupazione risulta in aumento (+0,2% a 4,9%) a parità di tasso di partecipazione al mercato del lavoro (+0,1% a 62,7%) mentre aumenta il salario medio orario (+2,6%/anno). Ulteriore buon dato viene dal fronte del numero di lavoratori part fine per motivi economici, calati di 587.000 nel mese, vale a dire ricucendo tutto l’aumento del mese di maggio.
Gli appuntamenti di politica monetaria post-Brexit
La scorsa settimana sono state pubblicate le minute degli appuntamenti di giugno della BCE e della Federal Reserve: entrambe le banche centrali si erano riunite prima del Referendum britannico ed entrambe – tra le righe – lasciavano trasparire con più probabilità l’esito del Remain. Sarà interessante quindi vederle all’opera il 21 luglio (BCE), 26-27 luglio (Fed) e 28-29 luglio (Bank of Japan). Già questa settimana parleranno molti membri Fed (in ordine di apparizione: George, Mester, Bullard, Kaplan, Lockhart): se la Fed ha intenzione di rialzare i tassi quest’anno dovrà fare un’opera di convincimento ai mercati molto intensa, visto che attualmente questi scontano un rialzo tassi a luglio con solo il 4% di probabilità, e che non prezzano pienamente nessun rialzo tassi nei prossimi anni. Altrettanto interessante sarà la riunione BCE, visto che i recenti movimenti obbligazionari lasciano trasparire un’estensione del QE per altri 9-12 mesi, anche se magari Francoforte attenderà settembre prima di agire. Novità sono invece probabili presto dal Giappone, dove cresce il sostegno ad Abe dopo le elezioni di domenica alla camera alta; peraltro tra i membri votanti è stato recentemente sostituito Koji Ishida con Makako Masai, maggiore sostenitore delle politiche ultraespansive rispetto al suo predecessore.
Il ruolo dell’Asia nella campagna presidenziale USA
Per il continente asiatico, la settimana alle spalle si è rivelata densa di notizie poco confortanti circa l’orientamento dei due candidati alle presidenziali USA, riguardo al posizionamento della politica economica del governo americano sul tema del commercio mondiale.
Infatti, al piano Trump, articolato su sette punti, ha fatto eco lo staff di Hillary Clinton che ha messo in rilievo come il progetto di inasprire l’atteggiamento USA su questo tema sia esattamente lo stesso della controparte, con reciproche accuse di plagio.
Sarà un segno dei tempi, ma i contenuti espressi dai due avversari politici sono chiari e circostanziati: entrambi stanno puntando il dito nella direzione della Cina, additandola quale parte del problema, ovvero quello relativo alla scarsa crescita economica e alla difficoltà per i cittadini americani di veder crescere il proprio potere d’acquisto.
Sebbene sia regola aurea far seguire ad una campagna elettorale infuocata, più miti consigli e maggior “Realpolitik”, non si può non notare come i toni siano insolitamente aspri e bellicosi.
La  Cina, senza mezzi termini, viene messa sul banco degli imputati e ciò potrebbe avere serie conseguenze per lo sviluppo economico di tutta l’area del far-east asiatico, se alle parole dovessero seguire i fatti.
Dall’altra parte dell’Oceano vi è – ovviamente – molta apprensione al riguardo in considerazione dell’enorme importanza che l’andamento della congiuntura e dell’orientamento del governo americano, hanno sul destino di milioni di posti di lavoro e sulla rapida crescita economica cinese messa a dura prova dal recente rallentamento della domanda interna; l’export cinese verso gli USA – quindi – assume ancora più importanza per il rispetto dei target di crescita previsti dai vari piani quinquennali del governo del gigante asiatico, come evidenziato da Shen Jianguang, economista di Mizuho Securities Asia.
I proclami di Trump e della Clinton intendono far apparire la Cina quale paese manipolatore sia del mercato dei cambi sia delle regole del gioco, laddove il governo sembrerebbe – a detta dei due – sovvenzionare in modo non corretto le imprese. A farne le spese sin da subito,secondo Donald Trump, dovrebbe essere la Trans-Pacific Partnership, un accordo di libero scambio tra USA e un gruppo di paesi, molti dei quali in Asia; di diverso parere la Clinton la quale ne modificherebbe il perimetro più che la sostanza.
Fin qui, la reazione cinese è stata molto contenuta e sobria per far sì che non si ricevessero accuse di ingerenza in questioni interne di un altro paese e gli stessi accademici, solitamente la voce fuori campo del governo, sono rimasti ai margini del problema, come sottolineato da He Weiwen, Co-Director del Centro Studi Cina-USA-EU dell’Associazione cinese per il commercio internazionale a Pechino, che ha fatto notare il consueto legame tra scarsa crescita economica e le tentazioni populiste.
È pur vero che a preoccupare la leadership americana sono i rinnovati sforzi bellici cinesi con la costruzione nel Mar della Cina di isole artificiali con postazioni militari e il potenziamento dell’apparato militare, oltre ai contrasti con il Giappone circa l’influenza su alcune isole a nord di Taiwan e ad una certa retorica e prosa aggressiva di recente fatta propria dal governo di Pechino.
Gli sforzi compiuti, in passato, da varie amministrazioni USA sembrerebbero quindi non aver sortito particolari effetti sull’auspicato e progettato piano di “occidentalizzazione” della Cina, con buona pace di tutto quanto tentato da Clinton, Bush e dallo stesso attuale presidente Obama; ciò che si fa notare – a questo proposito – è il fatto che che Hillary Clinton, Segretario di Stato nella precedente amministrazione Obama, ha appoggiato tutti i programmi di apertura verso la Cina, oggi finiti sotto accusa.
Andando avanti nella campagna elettorale e – soprattutto – all’atto dell’insediamento alla Casa Bianca, avremo modo di verificare la reale portata delle accuse e degli attacchi dei due candidati a diventare inquilino a Washington e se lo staff presidenziale suggerirà maggior pragmatismo o se invece l’asse della politica americana in quell’area cercherà di spostarsi maggiormente verso Giappone, Singapore e Vietnam per cercare una contropartita al sempre maggior peso geopolitico cinese, cercando di non cadere nell’errore di far riemergere sentimenti anti-occidentali come avvenuto in passato.
Come sottolineato da Kishore Mahbubani, Rettore alla Lee Kuan Yew School of Public Policy a Singapore se la TPP dovesse realmente essere stravolta o addirittura cancellata, la Cina diventerebbe il centro principale del contesto economico.

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