I vincitori ed i vinti dell’inedito ottovolante di inizio 2016
a cura di Deutsche AM
Come in un grande gioco dell’oca, dopo cinque settimane consecutive di rialzi, l’indice azionario statunitense S&P500 è ritornato ai livelli che aveva a inizio anno. Ed è qui che dobbiamo fare i conti con la “nostalgia”, nel senso più letterale del termine: “dolore del ritorno”.
Le valutazioni statunitensi sono ora bilanciate: né economiche, né care. A questo punto, è d’obbligo una riflessione per poter capire quale sarà la prossima direzione di mercato. Chi sono i vincitori ed i vinti di questo inedito ottovolante di inizio anno? Le premesse ed i timori che hanno portato al crollo fino a metà febbraio, ed in particolare i timori di una recessione globale, hanno lasciato posto ad una nuova fase più costruttiva, sospinta dal prezzo di molte materie prime. Più in generale, gran parte delle materie prime, se escludiamo quelle agricole, risultano positive da inizio anno con performance spesso a doppia cifra. Anche i metalli preziosi, dopo quattro anni di anonimato, sono tornati sugli schermi con rinnovato splendore. Strettamente legati al mondo delle materie prime, anche i listini azionari della Russia e del Brasile risultano i temporanei vincitori di questo inizio d’anno, con performance anch’esse positive. La Cina, che ha destato tante preoccupazioni ai mercati a partire dalla scorsa estate, sembra aver trovato una sua stabilizzazione grazie al nuovo regime di cambi che il Renminbi sta gradualmente abbracciando, e grazie alle politiche di stimolo fiscale.
Risultano invece ancora indietro il Giappone e l’Eurozona, entrambi penalizzati dal rafforzamento dello Yen e dell’Euro. E quando tocchiamo il tasto delle valute, arriviamo dunque – inequivocabilmente – al grande Deus ex machina di questa ripresa: sono ancora loro, le banche centrali, che si sono trovate costrette ad agire, una dopo l’altra, per rimettere in carreggiata la ripresa e, in Eurozona, un forte aggravamento delle condizioni finanziarie. Ma come hanno fatto?
La politica monetaria si tinge di giallo
Dopo il passo falso di fine gennaio, quando l’annuncio a sorpresa della Banca del Giappone di portare i tassi di deposito in territorio negativo, lo Yen ha avuto una fase di forte apprezzamento. Da allora, come abbiamo registrato settimana dopo settimana, diverse banche centrali hanno segnalato l’intenzione di non perseguire più la strada delle svalutazioni per risollevare le proprie economie perché così facendo continuavano a tenere sotto giogo i Paesi emergenti, le materie prime, e di conseguenza rischiavano di non rendere possibile una sana ripresa dell’inflazione.
Queste parole, che noi sponsorizziamo da diverso tempo, si possono anche reperire nel comunicato ufficiale che ha concluso il G20 di Shanghai. Da allora, sia la BCE che la Federal Reserve hanno rivisto in modo significativo le loro rispettive politiche monetarie. La Federal Reserve ha tenuto, la scorsa settimana, la sua riunione periodica: anche se quasi nessuno si attendeva un aumento tassi in quell’occasione, di certo ha comunque sparigliato le carte rendendo altamente improbabile un aumento tassi anche alla riunione di fine aprile. Il tono del governatore Janet Yellen è stato più cauto di quanto previsto, e con lei anche il comitato Fed ha mostrato di voler rivedere al ribasso le stime di crescita PIL e di inflazione, nonché il numero previsto di aumenti tassi nel corso di quest’anno, passati da quattro (alla riunione dello scorso dicembre) a due. Visto che la riunione del 15 giugno precede di pochi giorni il referendum inglese sulla Brexit (23 giugno), diventa sempre meno probabile un aumento tassi a giugno. E così, siamo passati ad una probabilità di rialzo tassi a giugno prezzata dai mercati futures dal 54% al 39%. Attualmente i mercati scontano un solo rialzo tassi nel corso di quest’anno. Più preoccupante è la riduzione del tasso di interesse neutrale “nel lungo termine”, ovvero oltre il 2018, che nelle ultime previsioni della Fed cala dal 3,5% al 3,25%: considerando che l’inflazione media nel lungo termine è al 2%, vuol dire che la Fed prevede un tasso di interesse reale attorno all’1,25%, certamente un indicatore della cautela che la Fed ha intrapreso.
Questo “repricing” forte del numero di aumenti tassi e delle dinamiche a lungo termine dell’economia statunitense hanno portato ad un brusco movimento di deprezzamento del Dollaro, che a sua volta ha dato un’ulteriore spinta alle materie prime e ai corsi azionari, obbligazionari e valutari emergenti, ed in particolar modo brasiliani (dove continua la protesta contro Rousseff e Lula). Come nei migliori gialli, i sospetti crescono al passare delle pagine, ma gli indizi non sono sufficienti: è solo una coincidenza che la BCE e la Fed hanno modificato la loro strategia in seguito al G20, o è in atto un qualche tipo di coordinamento? È solo una coincidenza che il G20 a Shanghai è stato anticipato da una lunga intervista al governatore della Banca centrale cinese che ha escluso la volontà di svalutare ulteriormente il Renminbi come è stato fatto la scorsa estate?
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