Tre aspetti fondamentali per la strategia d’investimento

di Mark Burgess, responsabile azionario globale di Columbia Threadneedle Investments

Nell’ultimo mese la crescita e le aspettative sono state frenate da un contesto in cui le temporanee misure di stimolo in Cina, che hanno condotto a un momentaneo miglioramento dei dati economici, si sono esaurite e l’Europa ha subito un rallentamento, non da ultimo a causa dei timori di un’uscita del Regno Unito dall’UE, in vista del referendum del 23 giugno. Gli indicatori anticipatori segnalano in tutto il mondo una debole crescita del PIL; inoltre, il rallentamento dell’espansione globale alimenta le aspettative su tassi d’interesse più bassi più a lungo, che a loro volta sostengono le attività rischiose.

In Europa, la mediocrità degli ultimi dati economici e societari susciterebbe generalmente un certo allarme ma, alla luce della bassa produttività, un tale livello di attività economica continua a rappresentare una crescita superiore al tendenziale. Abbiamo quindi assistito a un rally dei mercati azionari rispetto ai minimi nella prima parte dell’anno, per effetto non tanto del miglioramento dei flussi di notizie, quanto piuttosto dell’aspettativa di tassi d’interesse persistentemente bassi quale conseguenza di un contesto di crescita debole. I rendimenti delle obbligazioni core hanno registrato un rally e tale tasso di sconto ha sostenuto le attività a lunga duration e le attività rischiose in generale.

Si tratta tuttavia di un rally fragile che non delinea un solido contesto d’investimento. Tuttavia è lo scenario in cui ci troviamo. Chiaramente, in un mondo caratterizzato da una crescita modesta, il timore di una recessione è sempre più forte, come abbiamo visto all’inizio dell’anno. Le aziende stanno affrontando relativamente bene la situazione, sebbene ciò comporti significative revisioni delle previsioni sugli utili.

Seguendo la nostra strategia azionaria, abbiamo privilegiato il Regno Unito, l’Europa e l’Asia (Giappone escluso) e, sebbene siamo ben posizionati per beneficiare di un contesto caratterizzato da una crescita debole e da rendimenti contenuti, abbiamo deciso recentemente di ridurre il rischio ridimensionando la nostra posizione di sovrappeso nella regione asiatica (Giappone escluso).

La Cina è un tema persistente. I mercati hanno chiaramente espresso timori per i livelli assoluti del debito cinese e per la capacità della Cina di sostenere la crescita e, al contempo, di realizzare un atterraggio morbido senza innescare una crisi creditizia. Per sostenere la crescita è stato aumentato il debito e i mercati sembrano aver paradossalmente accettato questa situazione: si tratta forse di un altro caso in cui la politica fiscale e monetaria straordinaria diventa la “nuova normalità”. Non è facile prevedere quando il problema del credito cinese diventerà più pressante, sebbene nell’ultimo periodo sembrano moltiplicarsi le richieste affinché la People’s Bank of China affronti la questione dell'”abbuffata di credito”, non da ultimo con la pubblicazione di un articolo del People’s Daily che riporta le critiche mosse da una “fonte autorevole” alla strategia di crescita trainata dal debito implementata dalle autorità cinesi.

Un eventuale cambio di rotta rispetto a una strategia di crescita sostenuta dall’emissione di credito avrebbe implicazioni significative per i mercati, poiché concentrerebbe l’attenzione sull’entità delle sofferenze nel sistema bancario cinese e condurrebbe a un aumento delle insolvenze societarie. Ciò potrebbe porre bruscamente fine all’inversione di tendenza che ha condotto al rialzo dei prezzi delle materie prime. Pur non ritenendo che la People’s Bank of China sia sul punto di chiudere i rubinetti del credito, monitoriamo attentamente la situazione; inoltre, non nutro molta fiducia nella capacità della Cina di superare queste difficoltà senza causare troppi danni a se stessa o all’economia globale.

La questione del debito non riguarda solamente la Cina: il rapporto debito netto/PIL è ai massimi storici o prossimo agli stessi nella maggior parte dei paesi. Ciò non rappresenta un problema per le aziende, dato il massiccio stimolo monetario e i bassi tassi d’interesse, ma lo scenario macroeconomico sottostante non è tale da suggerire solidi rendimenti di mercato. Il sistema è gravato da ingenti livelli di debito e tre sono generalmente i modi per affrontare la situazione. La crescita è uno di essi ma, come abbiamo visto, si sta rivelando una via difficile da percorrere in tutto il mondo; in alternativa si può puntare sull’inflazione o sul default. Finora la politica monetaria non è riuscita a favorire il ritorno dell’inflazione nel sistema, mentre i default non servono ad imprimere slancio ai mercati. I governi potrebbero anche cercare di utilizzare tutti e tre i meccanismi a loro disposizione, quindi si potrebbe prevedere un aumento dei default.

Di recente ci siamo chiesti se un paese possa cercare di cancellare il proprio debito e quali sarebbero le conseguenze di una tale decisione. Sebbene si tratti sostanzialmente di un esercizio di pensiero, è interessante immaginare quale potrebbe essere la reazione del mercato se, ad esempio, il Giappone cancellasse il proprio debito pubblico, che è detenuto in larga misura al suo interno. Senza nessuno da rimborsare, una cancellazione del debito potrebbe non avere un impatto negativo devastante, ma potrebbe comportare implicazioni valutarie e ripercussioni sui mercati.

Negli Stati Uniti, i dati sull’inflazione registrano un moderato rialzo, parallelamente a una crescita dei salari nella maggior parte dei settori; eppure, i mercati sono stati relativamente ottimisti finché il verbale dell’ultima riunione della Fed, in cui non si esclude un rialzo dei tassi d’interesse a giugno, ne ha suscitato nuovamente la preoccupazione. Ciononostante, il sentiment prevalente è che l’entità dell’innalzamento non sarà sufficiente a causare una forte reazione dei mercati o delle banche centrali, uno scenario che potrebbe rivelarsi corretto vista la serie di shock deflazionistici già subiti.

Per mantenere il tasso di occupazione l’economia statunitense deve creare circa 80.000 nuovi posti di lavoro al mese. L’occupazione cresce a ritmi superiori a tale livello da oltre cinque anni e sembra che diventi più difficile riempire le posizioni vacanti. La crescita dei salari ha superato l’intervallo dell’1,5-2,0% entro cui si è mantenuta per molti anni, ma il recente aumento al 2,5% appare ancora incerto. In tale scenario, è possibile che sia cominciata l’attesa fase di rialzo del dollaro, con le ben note conseguenze per i mercati emergenti e per le altre classi di attività.

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