I mercati azionari provano a decorrelarsi dall’andamento del petrolio

A cura di Deutsche Asset Management

Il petrolio, dopo aver raggiunto un massimo relativo lo scorso 8 giugno (51,2 dollari per barile sul WTI), ha perso circa il 18%. La sovraofferta è tornata a penalizzare i corsi del greggio, aggravata dai dati delle scorte in USA. Dietro questo aumento delle scorte c’è una riattivazione dei siti di estrazione Oltreoceano: stando alle indicazioni di Baker Hughes, in otto delle ultime nove settimane il numero di siti in funzione è risultato in aumento, confermando la nostra tesi che in area 40-50 USD/barile molti produttori marginali possono tornare a produrre. I corsi del petrolio sono anche aggravati dalla stagionalità: normalmente l’estate coincide con il picco annuale del consumo di greggio.

Le implicazioni dei corsi del petrolio sui mercati finanziari, come sappiamo, non sono lineari: se a inizio anno la correlazione con l’indice S&P500 era molto alta, lo stesso non si può dire nelle settimane recenti, visto che al calo del prezzo del petrolio ha fatto da contraltare un mercato azionario che ha raggiunto nuovi massimi storici. Anche se non prevediamo un ulteriore tracollo, è indubbio che l’andamento del prezzo del petrolio può influenzare in futuro i mercati finanziari, sia azionari che obbligazionari.

Gli indici azionari statunitensi stanno superando nuovi record storici, grazie anche ad una stagione degli utili che si sta rivelando migliore delle attese. Più di metà delle società statunitensi ha già riportato i risultati, compreso gran parte delle più importanti blue chips: gli utili sono in media il 2% migliori delle attese. Delle società che hanno già riportato le trimestrali, il 74% ha sorpreso positivamente, con in testa i settori delle utilities, dell’healthcare, e della tecnologia.

Gli utili, in aggregato, restano in contrazione del 3% da inizio anno, ma gran parte delle società che stanno riportando i dati segnalano che la cosiddetta “profit recession”, cominciata nel terzo trimestre del 2015, potrebbe ora essere alle spalle: gli utili potrebbero tornare a crescere già nel terzo trimestre di quest’anno. Arrivano buoni segnali anche dal fronte dei dati macroeconomici statunitensi: il Citigroup Economic Surprise Index, che misura lo scarto tra le attese dei mercati ed i dati realmente pubblicati, è stato in risalita per 21 giorni consecutivi – la migliore ripresa di sempre – ed ha raggiunto il livello più alto registrato da settembre 2014, per poi indietreggiare alla pubblicazione dei dati di acquisti di beni durevoli (-4% a giugno).

Notizie meno buone vengono dal fronte della crescita PIL: il dato preliminare di crescita nel secondo trimestre, a quota +1,2% annualizzato, risulta ben inferiore alle attese dei mercati (per via di un minore impatto degli investimenti rispetto alle stime) e solo in timido recupero rispetto al +0,8% del primo trimestre. Continuiamo a prevedere che in aggregato il PIL USA possa crescere dell’1,8% nel corso del 2016: certo, basso per gli standard storici, ma ben più alto delle principali altre economie sviluppate.

In definitiva, i dati pubblicati la scorsa settimana mostrano con grande criticità quanto sia delicato il contesto in cui opera la Federal Reserve: luci ed ombre si accavallano, dando potenzialmente ragione sia ai pessimisti che agli ottimisti. In questo contesto, la riunione Fed della scorsa settimana si è conclusa con nessuna azione – come da attese – ma con due novità importanti: innanzitutto Esther George è tornata a votare per un rialzo tassi (aveva votato contro soltanto lo scorso mese, pre-Brexit), ed in secondo luogo si legge nel comunicato stampa che “i rischi sullo scenario economico di breve termine sono diminuiti”.

In sostanza, la Fed preferisce leggere in modo ottimista l’attuale contesto macroeconomico, lasciando capire che i tassi di interesse possano continuare a salire nei prossimi mesi, come peraltro sottolineato anche dal governatore Fed di San Francisco Williams anche dopo la pubblicazione del dato di crescita PIL.

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