Economia circolare, una sfida dei nostri tempi

A cura di Isabelle Cabie, Global Head of SRI, Candriam Investors Group

L’emergere dell’economia circolare non segna solo una nuova tappa nell’attuazione delle politiche per lo sviluppo sostenibile, ma costituisce un vero e proprio ribaltamento dei paradigmi. Finora, le politiche per lo sviluppo sostenibile miravano a limitare l’impatto ambientale e sociale dei processi di produzione. Da qualche anno, tuttavia, questo schema viene messo radicalmente in discussione.

L’economia circolare parte dalla constatazione che il processo di produzione lineare elimina, alla fine del ciclo, materiali preziosi: nell’UE il 57% degli scarti viene portato in discarica o all’inceneritore. Per risolvere la questione dell’esaurimento delle risorse conviene reimmettere nei processi di produzione le materie prime che attualmente vengono distrutte su vasta scala.

Questa visione si declina in modo assai concreto nella catena di produzione, attraverso il potenziamento dei servizi di manutenzione e riparazione per limitare la sostituzione di beni la cui durata di vita può essere prolungata, e propone lo sviluppo del mercato di seconda mano. Intende promuovere presso le industrie la pratica del riconfezionamento e del riciclo delle componenti dei prodotti.

Rendendo sistematici i meccanismi di recupero o “rifabbricazione”, si diminuiscono i bisogni iniziali di estrazione di risorse, e di conseguenza anche il considerevole consumo di energia. Ciò permette inoltre di sviluppare sul territorio servizi nuovi e occupazione: secondo alcune proiezioni, il potenziale di creazione di occupazione si aggira intorno ai due milioni di posti di lavoro in Europa entro il 2035.

Non bisogna però sottostimare i cambiamenti per le imprese, che dovranno rivedere parte dei loro processi di produzione e creare un ambiente favorevole all’economia circolare: quando gli scarti dell’una possono divenire le materie prime dell’altra, occorre anticipare dei circuiti logistici ed economici per facilitare lo scambio di risorse.

Lo stimolo normativo è dunque essenziale: L’UE ha fissato un obiettivo di riduzione di 500 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2035 grazie all’economia circolare, al riciclaggio del 65% dei rifiuti domestici e del 75% degli imballaggi.

In questo contesto, l’intervento degli investitori rappresenta un potente volano. Sta a loro fare emergere criteri d’investimento basati sull’attuazione dell’economia circolare. I criteri individuati riguardano la politica d’impresa: l’impresa ha previsto di migliorare il suo servizio di manutenzione? È specializzata nella seconda mano (come eBay)? Vende prodotti riconfezionati (come Dell, HP, Philips)? Vende prodotti frutto di riciclaggio (Umicor)?

Questi criteri tengono in considerazione anche i processi interni.  Ad esempio, l’impresa fa uso di materiali riciclati? Ottimizza il consumo di energia? Una parte del budget R&D (ricerca e sviluppo) è dedicata all’ecoprogettazione (come per esempio il progetto ARA di Google)? Gli scarti sono utilizzati per la realizzazione di nuovi prodotti?

L’economia circolare ridarà un senso alla cooperazione e alla convergenza tra soggetti che troppo spesso nutrono diffidenza gli uni verso gli altri: gli investitori privati, le imprese, gli enti pubblici e i cittadini devono trovare nuovi modi di concepire e gestire nel tempo la loro relazione con l’economia, la produzione, la crescita, la ridistribuzione.

È una grande sfida che il nostro tempo deve raccogliere e che potrà vincere solo con l’intelligenza collettiva e la cooperazione di tutti.

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