Stati Uniti: costruire ponti invece di erigere muri

Di Christophe Bernard, Chief Strategist di Vontobel

Per riassumere e raffrontare le due campagne presidenziali negli USA si può ricorrere a due semplici immagini: “costruire ponti” contro “erigere muri”. La prima tesi è quella abbracciata dalla candidata democratica Hillary Clinton, la seconda è emblematica per il suo avversario repubblicano Donald Trump. Per il momento non è chiaro quale candidato troverà l’appoggio degli elettori americani l’8 novembre. Abbiamo pertanto ridotto la nostra esposizione azionaria, portandola in posizione neutrale perché non possiamo escludere delle turbolenze post-elettorali. A sei settimane dalle elezioni presidenziali dell’8 novembre, la corsa tra la contendente democratica Hillary Clinton e il candidato repubblicano Donald Trump risulta sorprendentemente serrata. Sebbene Hillary Clinton rimanga in testa ai sondaggi dopo il primo dibattito televisivo, il suo vantaggio è troppo lieve per dare per scontato l’esito delle urne.

In materia di commercio, immigrazione e relazioni estere, Hillary Clinton appoggia ampiamente le attuali politiche americane. Donald Trump, invece, propugna una rottura fondamentale. Riguardo al commercio, il “tycoon” diventato uomo politico vuole annullare trattati chiave come il North American Free Trade Agreement e la Trans-Pacific Partnership, nonché imporre dazi sostanziali sulle merci importate dalla Cina e dal Messico. È a favore di una politica d’immigrazione restrittiva, che include la deportazione di immigrati clandestini e la costruzione di un (altro) muro lungo il confine con il Messico. Le sue idee sulle relazioni estere sono improntate sull’isolazionismo: Trump mette in questione le alleanze che permeano la politica americana sin dalla seconda guerra mondiale, per esempio gli accordi di difesa con il Giappone e la Corea del Sud e l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Secondo lui, gli USA non ricevono abbastanza in compenso. Il suo sostegno a favore della Brexit rivela inoltre la sua mancanza di stima nei confronti delle istituzioni europee.

Quanto alla politica di bilancio, entrambi i candidati caldeggiano un aumento delle spese infrastrutturali. L’intenzione di Trump di tagliare nettamente le imposte per le persone fisiche e giuridiche è in netto contrasto con il programma fiscale di Clinton. Trump prende le distanze anche dalle tesi repubblicane classiche: la sua promessa di mantenere la spesa sociale nei programmi sanitari Medicare e Medicaid farà lievitare il deficit di bilancio e il debito pubblico. In questo senso Clinton è più vicina alle posizioni tradizionali del suo partito: la sua proposta di aumentare le imposte per i redditi alti permetterebbe di finanziare un piano infrastrutturale quinquennale per un importo di 275 miliardi di dollari USA.

Programmi presidenziali regolarmente affossati dal Congresso Molte delle dichiarazioni di Trump hanno un carattere chiaramente provocatorio e rappresentano probabilmente più un punto di partenza che un impegno formale. Le sue parole, come anche molte promesse elettorali di Hillary Clinton, non devono essere prese alla lettera. Le ambizioni della maggior parte dei presidenti americani, incluso Barack Obama, sono sempre state ridimensionate da un Congresso più o meno ostruzionista. Per questo motivo le elezioni parlamentari dell’8 novembre saranno quasi altrettanto importanti quanto la corsa alla presidenza – sono infatti in palio un terzo dei seggi del Senato e tutti quelli della Camera dei Rappresentanti. Mentre i Democratici potrebbero conquistare il Senato, il massimo organo legislativo rimarrà probabilmente in mani repubblicane. È interessante notare che, se eletta, Hillary Clinton dovrà probabilmente affrontare un governo più diviso di quello di Trump in caso di una sua vittoria.

Un percorso accidentato per l’economia e i mercati finanziari?
La vittoria di Clinton lascerebbe i mercati finanziari in una situazione analoga a quella attuale: nessuna emozione, ma un alto grado di visibilità. Come previsto, le sue politiche, ad eccezione della sua posizione sull’accordo di libero scambio nell’area del Pacifico, sono in linea con quelle dell’amministrazione Obama. L’impatto di una vittoria di Donald Trump sull’economia e i mercati finanziari è invece impossibile da valutare. È infatti troppo ampio il ventaglio delle sue possibili azioni politiche con le loro potenziali ricadute, dirette e indirette, sulle quotazioni azionarie, i titoli di Stato americani e il dollaro USA. D’altra parte si può affermare che sotto Trump gli USA si indirizzerebbero probabilmente verso una “de-globalizzazione” a danno delle nazioni esportatrici e in particolare dei paesi emergenti. Rimane da vedere se le conseguenti tensioni tra i partner commerciali potrebbero innescare una recessione negli Stati Uniti e in altri paesi, con un taglio dei piani d’investimento da parte delle imprese. A parità di condizioni, il dollaro USA potrebbe beneficiare di un minore deficit della bilancia delle partite correnti. Inoltre si assisterebbe probabilmente a un aumento dell’inflazione a causa del maggiore costo dei prodotti importati e delle restrizioni all’immigrazione (con conseguente aumento del costo del lavoro).

In sintesi, una vittoria di Donald Trump aumenterebbe il livello di incertezza, cosa che i mercati finanziari non apprezzano. Di conseguenza, abbiamo ridotto ulteriormente la nostra esposizione nelle attività rischiose, adottando una posizione neutrale. Mentre le politiche monetarie continuano a favorire i mercati azionari e creditizi, le incertezze legate all’esito dell’elezione negli USA richiedono una buona dose di cautela.

clinton-trump-sondaggio

Vuoi ricevere le notizie di Bluerating direttamente nella tua Inbox? Iscriviti alla nostra newsletter!