Il punto sui titoli di Stato dopo gli ultimi movimenti

A dell’ufficio studi di Marzotto Sim

Il movimento del mercato obbligazionario dopo l’elezione di Donald Trump è stato rabbioso. Innestandosi su una tendenza già in atto da qualche settimana, il rialzo dei rendimenti dei titoli di stato delle economie sviluppate è stato di 20-40 basis points a seconda dei paesi. Ancora più marcato è stato quello dei paesi emergenti.

Limitando per ora l’analisi ai paesi sviluppati, il rialzo dei rendimenti può essere ricondotto a tre fattori fondamentali: il rialzo delle aspettative di inflazione, un cambiamento delle politiche monetarie attuate dalle rispettive banche centrali (che nel caso dell’Europa contribuirebbero a “normalizzare” il mercato) e fattori specifici che possono pesare su singoli paesi (come p.es. il referendum italiano del 4 dicembre).
Nella tabella sottostante sono indicati, sia i rialzi del rendimento dei rispettivi titoli di stato decennali da settembre ad oggi, sia l’aumento delle aspettative di inflazione.

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Il differenziale tra la terza e quarta colonna è evidentemente riconducibile a mutate aspettative nel comportamento delle banche centrali, oppure a fattori specifici.
Come indicato in tabella, gli unici quattro paesi per i quali si siano materializzati fattori specifici in grado di influenzare l’andamento del mercato sono: USA (elezione di Trump con attesa di un forte aumento del debito per finanziare il taglio delle tasse – negativo), Italia (incertezza per il risultato del referendum – negativo), Spagna (formazione del governo Rajoy – positivo) e Portogallo (conferma del rating di BBB da parte di DBRS e approvazione del budget – entrambe positivi).
Da questo si dovrebbe desumere che in tutti gli altri paesi, rispetto a settembre (mese dal quale abbiamo analizzato i dati), gli aumenti di rendimento non giustificati dall’incremento delle aspettative di inflazione sono ascrivibili ad aspettative di mutamento del comportamento delle Banche Centrali.
In Europa, escludendo Italia, Spagna e Portogallo, il movimento dei rendimenti non spiegato dalle aspettative di inflazione è stato in media di circa 60 basis points, a fronte di aumentate aspettative di inflazione di 28 basis points, con una differenza di 32 basis points (b.p.) circa. Questo dovrebbe portarci a concludere che se Mario Draghi l’8 dicembre dovesse “non deludere”, buona parte di questa “differenza” di 32 b.p. dovrebbe essere riassorbita da una riduzione dei rendimenti.
Parimenti, si può per esclusione quantificare una stima di quanto stia pesando l’incertezza sul referendum italiano del 4 dicembre sui BTP: 93 b.p. (aumento dei rendimenti dei BTP) – 28 b.p. (aumento aspettative inflazione) – 32 b.p. (stima effetto Draghi) = 33 b.p.
Anche in questo caso si può supporre che in caso di vittoria dei “SÌ” ci sarebbe un recupero almeno pari ai basis points indicati precedentemente (ma forse addirittura di più).
In USA, invece gran parte del recente movimento dei rendimenti è spiegato dalle maggiori aspettative di inflazione. In UK il dato è evidentemente “sporcato” dai movimenti avutisi post “Brexit” quando, a differenza degli altri paesi, si ebbe già tra luglio e agosto un aumento delle aspettative di inflazione di ulteriori 30 b.p.
In Giappone infine l’aumento delle aspettative di inflazione è stato addirittura superiore a quello dei rendimenti.
Tornando agli USA l’elezione di Trump è stata determinate nell’aumentare le aspettative di inflazione (si veda il grafico sottostante), ma non ha per il momento creato un peggioramento nella valutazione del rischio emittente del Governo Statunitense, se no i rendimenti sarebbero saliti ancora di più.

Ci sembra quindi interessante restringere l’analisi agli ultimi giorni successivi all’elezione di Trump, nei quali l’unico motivo dei movimenti di rendimento non può che essere conseguente alla sorpresa e alle modificate aspettative di politica economica e fiscale negli USA.
La tabella sottostante ripropone quindi il confronto tra movimenti dei rendimenti e aspettative di inflazione, dal 8 novembre a oggi.

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Emerge che, coerentemente con una previsione di forti stimoli fiscali, in USA sono saliti sia rendimenti che aspettative di inflazione. In Europa e UK invece, a mentre la salita dei rendimenti è stata simile a quella degli USA, le aspettative di inflazione si sono mosse molto meno. In Giappone infine sia rendimenti che aspettative di inflazione sono rimaste poco mosse.
La divergenza del mercato europeo rispetto a USA e Giappone è evidente; i rendimenti sono saliti come in USA, ma le aspettative di inflazione sono poco mosse come in Giappone. Le giustificazioni possono essere certamente ricercate nella diversa condizione dei rispettivi mercati obbligazionari, ma data la violenza del movimento e l’entità della divergenza materializzatosi in così pochi giorni, non saremmo sorpresi che almeno in parte potesse rientrare, con un recupero parziale dei mercati obbligazionari europei.
In ogni caso, un forte aumento dei rendimenti e delle aspettative di inflazione, non accompagnato da un aumento di previsioni di crescita economica, ci sembra abbastanza incompatibile con la sostanziale stabilità di tutte le asset class più rischiose (azioni, obbligazioni “corporate” e “high yield”).

Per lo meno in Europa quindi nei prossimi mesi ci aspetteremmo: o che i rendimenti ritornino verso i minimi del 2016 confermando uno scenario “giapponese”, o che si materializzi un’ondata di “risk-off” su tutte le asset class considerate più a rischio, o che le aspettative di crescita economica in Europa tornino a migliorare giustificando l’incremento dell’inflazione prevista.

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