Trump-onomia e Opec rimangono i driver principali delle materie prime

A cura di Ole Hansen, Head of Commodity Strategy di Saxo Bank
Il Bloomberg Commodity Index è salito del 12% nel 2016 e resta in lizza per far registrare il suo primo anno di profitti dal 2010. Tutti i settori a parte l’agricoltura evidenziano guadagni di oltre il 10%, con i metalli industriali al top, con rendimenti oltre il 25%.
L’impatto della vittoria di Trump lo scorso 8 novembre continua a essere percepito in tutti i settori di attività, con la prospettiva di politiche favorevoli alla crescita e il potenziale aumento dell’inflazione che hanno portato Wall Street a nuovi massimi storici, mentre i rendimenti dei titoli di stato hanno subito un’impennata e il dollaro si è allineato. Oltre a ciò, la decisione dell’Opec di tagliare la produzione significa che novembre si rivelerà sicuramente un mese pieno di sorprese.
Nella scorsa settimana i principali comparti delle materie prime, ad eccezione dei metalli preziosi, hanno goduto di un incremento negli scambi, questo nonostante i persistenti venti contrari derivanti da un dollaro in crescita. Il greggio si è fermato a seguito della forte impennata in vista di una riunione di produttori non-Opec (NOPEC). Il gas naturale, intanto, corre più forte, con una esplosione polare che ha contribuito a sospingere i prezzi americani verso un picco biennale.
I metalli industriali hanno mantenuto i forti guadagni dei due messi passati, sulla scorta dell’aumento della domanda cinese, mentre i metalli preziosi hanno provato ad opporre resistenza nei confronti di un dollaro più forte. Una persistente impennata delle scorte combinata alla crescita dei rendimenti obbligazionari e con un dollaro più forte hanno causato molta incertezza per quanto riguarda la direzione futura dei metalli preziosi. Le attività totali di strumenti scambiati in borsa coperti dall’oro sono diminuite di 164 tonnellate dall’8 novembre, mentre i fondi speculativi hanno tagliato le scommesse al rialzo di oltre il 60% dal record di luglio.
Gli operatori finanziari mantengono un atteggiamento negativo, però, mentre le opzioni put un paio di settimane fa erano quotate il 3% sopra le call, la valutazione peggiore in 15 mesi, tale sovrapprezzo si è ora ridotto ad appena lo 0.6%. Nel mercato a termine l’open interest si è stabilizzato, e questo potrebbe anche essere un segnale che la pressione alla vendita derivante dalle liquidazioni di lungo ha iniziato ad affievolirsi. Un ulteriore segno della stabilizzazione del mercato è rappresentato dal rapporto oro-argento, scivolato di nuovo sotto 70, con l’argento ancora una volta sovraperformante.
In parte ciò proviene indubbiamente dal collegamento dei metalli bianchi a un crescente settore dei metalli per uso industriale ma dimostra anche che le posizioni si sono assestate su nuovi e più bassi livelli.
A seguito della più grande caduta mensile in tre anni, l’oro è sinora riuscito a scambiare in un range relativamente stretto, con un prezzo medio non sorprendentemente vicino a $1.172/oz.  Questo è un livello tecnico fondamentale, in quanto rappresenta un ritracciamento del 61,8% del rally 15 dicembre-16 luglio.
Il vincitore di questa battaglia toro contro orso potrebbe in ultima analisi fissare la direzione dell’oro per i prossimi mesi. Un rimbalzo da qui potrebbe indicare che l’ondata di vendite iniziata a luglio era “soltanto” una profonda correzione all’interno di un trend rialzista iniziato un anno fa, mentre una discontinuità in basso indicherebbe una fase prolungata di prezzi deboli.
Detto questo, il fatto che l’oro sia riuscito a mantenersi a $1.172/oz potrebbe rappresentare una prima indicazione che la domanda da fonti diverse dagli ETP abbia iniziato a riprendersi. Tuttavia, per poter vedere un ritorno del sentiment su livelli neutri, l’oro dovrà risalire al di sopra della resistenza di $1.200/oz. Nel breve periodo, tuttavia, una ripresa del dollaro specialmente contro l’euro sotto €1,05 e lo yen sopra ¥115 continuerà a sfidare la determinazione dell’oro.
Il mercato del greggio ha avuto una settimana relativamente tranquilla, a seguito del grosso picco avutosi all’indomani dell’accordo Opec del 30 novembre sul taglio della produzione di 1,2 milioni di barili al giorno. Le prospettive per un mercato in pareggio prima del previsto hanno innescato una grande rotazione da posizioni speculative corte ad addizionali lunghe. La portata di questo cambiamento si conoscerà dopo la chiusura di venerdì, quando il CFTF rilascerà i dati relativi al posizionamento degli hedge fund per la settimana terminata il 6 dicembre.
Una componente importante della “vendita” al mercato di questo taglio della produzione è stato l’impegno dei produttori non-Opec di ridurre la produzione di ulteriori 600.000 b/d. Il meeting di Vienna del 10 dicembre tra membri Opec e non-Opec fornirà indizi sulla fattibilità di questo ulteriore taglio. La Russia ha sin qui promesso di ridurre gradualmente la propria produzione di 300.000 b/d fino a che l’Opec rispetterà i suoi tagli di produzione.
Quest’ultimo aspetto potrebbe comunque diventare un problema, visti i modesti risultati conseguiti dall’Opec quando si tratta di rispettare i propri obiettivi di produzione. Ciò potrebbe essere reso ancor più difficile considerando la crescita della produzione osservata in Libia e Nigeria, entrambe esenti dai tagli. In novembre, questi Paesi hanno accresciuto la produzione combinata di 140.000 b/d, con la Nigeria che cercherà di aggiungere ulteriori 400.000 b/d prima di febbraio.
Questi sviluppi continuano a lasciare molti scettici circa l’ulteriore potenzialità al rialzo del petrolio in questa fase. Tuttavia, il miglioramento delle prospettive tecniche ha lasciato il mercato in modalità rialzista, con la potenzialità nel breve periodo di spostarsi verso livelli più elevati. Più in alto salirà, maggiore sarà il rischio di una decisa inversione in caso di non ottemperanza delle promesse da parte dell’Opec o di notizie positive dal settore americano dell’olio di scisto.
Una ulteriore fonte di approvvigionamento potrebbe nei prossimi mesi provenire dai depositi abbandonati di stoccaggio in terraferma e sul mare, con lo svanire dell’economicità di tali strategie. La domanda d’investimento frontale e le vendite dei produttori (hedging) che allontanano la curva dei future hanno innescato un brusco calo dei pronti contro termine. Questo ha di fatto rimosso gli incentivi ad acquistare petrolio da stoccaggio da rivendere successivamente. Potremmo invece vedere decine di milioni di barili immessi sul mercato nelle prossime settimane e mesi.
Una formazione testa e spalle che si è andata sviluppando da settembre 2015 ha il potenziale per innescare ulteriore stimolo nel petrolio. I trader che utilizzano le analisi tecniche spesso negoziano senza badare ai sottostanti fondamentali. A questo punto della fase di recupero del prezzo del petrolio, il rischio di un aumento della produzione generata da prezzi più alti potrebbe alla fine rivelarsi controproducente.
Prima che ciò accada, vi sarà ancora una volta il rischio di vedere puntate al rialzo crescere a livelli insostenibili. Questo potrebbe lasciare il mercato esposto ad un’ampia e potenzialmente ingiustificata correzione, come già visto in numerose occasioni quest’ultimo anno.

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